Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“Mine vaganti”: digressioni narrative “alla Ozpetek”, mine vaganti di una vera costruzione drammaturgica
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
19/03/10 – Il ritorno a casa, il confronto con le proprie radici, i compromessi morali e psicologici con i propri legami di terra e sangue, l’inconciliabilità tra individuo e cultura che conduce a scelte condizionate: Ozpetek, per interposta Puglia, fa i conti con il proprio retroterra, con la storia e preistoria di se stesso. Per sua stessa ammissione, in “Mine vaganti” c’è molto autobiografismo, anche se, come in altre sue opere, mascherato e sublimato in una costruzione “altra”, distante e mai piattamente personale. In questo, probabilmente, è aiutato dalla sua stessa condizione di alterità culturale. Turco, ma da molti anni trapiantato in Italia, e appassionato cultore di cinema italiano di cui spesso i sui film traboccano fitti di citazioni, reminiscenze o espliciti omaggi a Pasolini, Rossellini, Visconti, e alla grande commedia all’italiana. “Mine vaganti”, quindi, parte da profonda riflessione e vero sentimento. Che Ozpetek, con riuscite diseguali, abbia comunque un proprio sguardo cinematografico, è innegabile. Il suo è quasi sempre cinema popolare, ma la regia è presente, mai impersonale, mai banalmente professionale. Talvolta, magari, emerge un certo compiacimento fine a se stesso, ma, un esempio su tutti, l’ormai famosa sequenza, in “Saturno contro”, della trepidazione di Ambra Angiolini all’obitorio, denota personalità, stile, ottima direzione attoriale, ricerca di senso e resa di senso. Un’altra delle sue caratteristiche più riconosciute, a livello strettamente narrativo, è la sua capacità di strutturare una storia, e di concedersi poi a impreviste divagazioni, che non rispettano una stringente sequenzialità diegetica, ma che procedono per accumulo e ulteriore definizione (sempre “Saturno contro”, ma anche “Le fate ignoranti”). Stavolta, però, la “messa in forma” del suo autobiografismo non è delle migliori, e la sua tendenza alla digressione narrativa si confonde pericolosamente con un’intrinseca debolezza di struttura drammaturgica.
Sarebbe stato interessante vedere un autore personale come Ozpetek alle prese con le strettoie di una veste narrativa rigida e codificata, fosse essa farsa, melodramma, o anche melodrammone ai confini con la soap opera. “Mine vaganti”, invece, sceglie di non scegliere. Possiamo di nuovo attribuire tutto quanto alla tendenza per la divagazione, ma, se anche fosse, stavolta la divagazione non produce senso, non si coagula in un progetto unitario, non pare ricondursi a idee chiare e solide a monte del lavoro di scrittura. E si esce dalla visione del film con un triste senso di sperpero. Perché, in primo luogo, il soggetto è buonissimo: un ritorno a casa, un omosessuale che vuol confessarsi alla famiglia, un conflitto e un dolore familiare, intrecciato anche a un lacerante senso di responsabilità (Tommaso vuol confessarsi perché non vuole lavorare nell’azienda di famiglia, e spera di non essere accettato), e soprattutto una brillantissima idea di partenza, ovvero la doppia omosessualità di due fratelli. Com’è buono il soggetto, così è buono l’incipit. La confessione di Antonio davanti alla tavolata di familiari promette forti sviluppi narrativi, personaggi in conflitto, analisi e narrazione. Da lì in poi, invece, Ozpetek non compie più vere scelte, si affida a singole pagine che sfiorano tonalità narrative senza mai afferrarle, e tutto si disperde. Innanzitutto si disperde il personaggio di Antonio, confinato a tre, quattro apparizioni. Ci si sofferma sulla sofferenza del padre, poi si dà ampio spazio al personaggio di Alba, rappresentante di un’altra forma di discriminazione, quella verso il disagio psichico. Sparisce del tutto il braccio della narrazione accennato in prima battuta (il pastificio, il dovere della discendenza, Tommaso e Antonio che cercano di rimbalzarsi a vicenda il barile della continuità familiare in azienda), e si compongono di volta in volta quadretti separati, ora a proseguire il racconto per salti estemporanei, ora a definire questo o quel personaggio. La zia Luciana, ad esempio, è un personaggio ipercaratterizzato, zitella, un po’ ipocrita, priva di una propria personalità, che si esprime a frasi fatte e spesso fatte da altri. Alla nonna è riservato un trattamento spesso ieratico, da “grande saggia”, anche un po’ mielato e stilizzato. La sua libertà è ammirata e vagheggiata, ma si perde in mezzo a sguardi cinematografici troppo diversi tra loro.
Ozpetek ci crede ai propri personaggi, o non ci crede? Se ci si vuole affidare al melodramma, preso seriamente o rivoltato in grottesco, bisogna avere il coraggio di affidarsi ai suoi codici, di rispettarli, oppure di tradirli ma secondo una propria idea forte. In “Mine vaganti”, invece, Ozpetek giustappone sequenze dissonanti. Ogni tanto prende il volo verso il melodramma, poi ritorna nella commedia realistica con annesse questioni di corna, poi si dà allo scambio pepato tra donne da commedia all’italiana strapaesana (la mamma e zia Luciana in gioielleria), poi apre una pagina da farsa stile “Il Vizietto” con l’arrivo degli amici di Tommaso… I personaggi non s’intrecciano, non s’incontrano, non si scontrano, e questa può essere una scelta, ma nemmeno si raccontano, né per immagini né tramite i pur ricchissimi dialoghi. E la commistione dei generi è ricercata tramite astratte giustapposizioni. Le “mine vaganti”, insomma, mischiate alla normalità e minaccia delle convenzioni, che siano omosessuali, giovani donne rampanti e asociali, o nonne demiurghe, non esplodono mai, e non producono una narrazione significante. Così come non convince la riunificazione familiare tramite il lutto, rapida, “scesa dall’alto”, narrativamente non motivata, che pure dà l’avvio a una bella sequenza conclusiva, onirica e felliniana, in cui tutti i passati e presenti, le storie e preistorie si danno la mano e si festeggiano al di là d’incomprensioni, distanze e pregiudizi. Un bel riconoscimento di Ozpetek all’importanza delle radici, anche quando sono portatrici di dolore e frustrazione. Un finale che è una bella riuscita registica e che testimonia, una volta di più, la maestria di Ozpetek nel cesellare singole sequenze. Ma, anche, un ulteriore attestato della sua tendenza, stavolta invasiva e distruttiva, all’episodio, alla digressione, che aumenta il dispiacere per un’occasione mancata.