Omaggio a Monicelli

15/12/10 - Mario Monicelli: il lavoro del cinema. Ricordo i manifesti de "Il marchese del Grillo"...

Mario Monicelli: il lavoro del cinema

15/12/10 – Ricordo i manifesti de Il marchese del Grillo, appesi in ogni dove, in tutti i formati possibili, nell’atrio del Supercinema di Monsummano Terme (PT). Era il 1981, avevo cinque anni. Quella sala appartiene a un mondo spazzato via poco dopo, quello delle sale di provincia dove il “grande evento” arrivava sempre un po’ in ritardo, facendosi largo, in quegli anni, in mezzo ai mille manifesti, tutti uguali, delle commedie sexy che riempivano il resto della programmazione. Il marchese del Grillo lo attendevano in molti, pure i miei, che impazzivano per Alberto Sordi, e la sovrabbondanza di manifesti testimoniava la grandezza dell’evento inconsueto per quel tipo di sala. Nessuno mi disse che il regista era Mario Monicelli. Il regista, in fondo, sullo schermo non si vedeva, non importava a nessuno. Lo spettacolo esisteva per se stesso, era il miracolo del “vedere”, e del ridere. Era la purezza di uno sguardo, che col tempo ho irrimediabilmente perso. L’anno dopo, fu la volta di Amici miei Atto Secondo. Stavolta a Montecatini Terme, al cinema Adriano. Cinema di gran lusso, tutt’altra storia. Ricordo che non capivo i flashback. Come poteva Philippe Noiret essere morto, e poi essere vivo? E poi di nuovo morto? Anche stavolta, nessuno mi disse che il regista era Mario Monicelli. A chi interessava, in fondo? A me per primo, che m’importava? A sei anni, per me probabilmente il film esisteva in quanto tale. Nessuno l’aveva “fatto”. Era qualcosa da vedere e ascoltare, niente di più. E niente di meno.

Mario Monicelli è stato questo, credo. L’essenza di un cinema professionalmente altissimo, che rinnegava però una dimensione invasivamente autoriale. Per la massa del pubblico popolare, Monicelli, Comencini, Steno, Risi erano poco più che nomi fluttuanti tra tv e quotidiani, non identificati in un ruolo decisivo per la realizzazione di un film. Vaghezza. L’importante era ridere. Anche di una contorsionista chiusa in una cassa e spedita in autobus perché divenuta un’amante scomoda, e con buona probabilità soffocata per asfissia durante il viaggio (la burla più atroce della serie Amici miei). Il riso cattivo. Il riso che, a poco a poco, non fa più ridere, tanto è ardita e sempre più scatenata la sfida alle categorie morali del pubblico. Quanto forte era l’intenzione, in tutto questo? Si è sempre parlato, per Monicelli e per tutta la commedia all’italiana, di Boccaccio, della novellistica prerinascimentale, talvolta di Ariosto. Ma c’era una vera ricerca in questo senso? Non credo. Semmai, lo spirito era comune perché appartenente a una comune cultura. Ma non c’è mai stato, in Monicelli, un intento colto, il desiderio di ripercorrere consapevolmente archetipi narrativi nazionali con atteggiamento estetizzante. Il cinema brillante di Monicelli viveva della sferzata feroce, come Boccaccio, perché Monicelli “era” un Boccaccio. Nato 600 anni dopo e formatosi in una comune atmosfera nazionale. A dirla tutta, poi, questa è un’identificazione che Monicelli si è guadagnato soprattutto con Amici miei, e che, certo, ha percorso pure in altre occasioni. Ma il suo cinema è stato molto più vasto, eclettico, pronto a misurarsi con le prove più diverse. Con l’atteggiamento professionale di chi, innanzitutto, lavora, senza steccati e preconcetti. Per andare all’estremo opposto, sarebbe bello se, nell’ambito delle canoniche celebrazioni post-mortem, qualcuno avesse il coraggio di riproporre Caro Michele (1976), misconosciuto, dolentissimo dramma che Monicelli trasse da un romanzo epistolare di Natalia Ginzburg, e che fece ricorso a una coraggiosa narrazione cinematografica altrettanto “epistolare”, in cui la struttura del racconto si sorreggeva tutta su un’ardita frammentazione. Oggetto estraneo, in quegli anni di invadente dedizione, di autori e pubblico, alla commedia nazionale. Ma che testimonia, nel modo più decisivo, l’estrema varietà di un atteggiamento cinematografico.

Mario Monicelli, sì, è stato la commedia, l’autore del facce ride’, ad ogni costo. L’autore che faceva impazzire il Supercinema quando il suo ultimo film, con l’attore brillante di turno, finalmente arrivava nella landa sperduta della provincia. Ma è stato, in realtà, il principe dell’eclettismo professionale. Del cinema, innanzitutto, come nobilissimo lavoro.

MASSIMILIANO SCHIAVONI