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“Romanzo popolare” (1974) di Mario Monicelli: commedia di ipercaratteri, ingenuo artigianato e intuitività d’indagine
(Nuova rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
02/03/10 – Per quasi tutta la sua settantennale carriera, Monicelli si è sempre dato come primo proposito di far divertire il suo pubblico. Rappresentante esemplare della più pura commedia all’italiana, si è sempre visto attribuire la definizione più abusata di “castigat ridendo mores”: il riso triste di chi vede, bacchetta e riflette con amarezza. “Romanzo popolare” cade in una sua fase critica di carriera, nel pieno degli anni ’70, ovvero quando i consueti strumenti della commedia entrano in grave crisi. Si può continuare a ridere della realtà, quando la realtà si è fatta così plumbea e drammatica? C’è chi ci prova, come Dino Risi, che ottimamente in “In nome del popolo italiano”, piuttosto male in “Mordi e fuggi” e “Caro papà”, non arretra davanti a nulla e riveste di acido grottesco i tempi bui di corruzione, caduta delle coordinate sociali e morali, terrorismo, gambizzazioni e sequestri di persona. Di quella generazione di autori, Risi è sempre stato il più cinico: utilizza i propri personaggi come mere funzioni narrative, come marionette di uno spettacolo sempre più rancido e incattivito, come un bambino sadico che gioca con un gruppetto di formiche. Specie negli anni ’70, i suoi esiti, voluti o meno, sono un grottesco survoltato che in coordinate moderne rasenta il demenziale all’americana. Monicelli è altrettanto cattivo, ma al fondo della sua opera si è sempre palesato un interesse umano per i propri personaggi, mai ridotti a figurine (solo) patetiche, e portatori di una sentita desolazione di fondo. La stessa “Armata Brancaleone”, pur stilizzatissima in figuratività e caratterizzazione tanto da assimilarsi alle dinamiche di un cartone animato, era accompagnata, però, da un costante sguardo complice, comprensivo e affettuoso. Nel gruppone degli autori di classica commedia all’italiana, è la nota che più discosta e caratterizza Monicelli. Negli anni ’70 anche l’autore toscano ha rasentato la cronaca del tempo, nella farsa poco riuscita di “Vogliamo i colonnelli”. Ci ritornerà con esiti del tutto diversi (ma pure sopravvalutati) in “Un borghese piccolo piccolo”.
“Romanzo popolare” si pone a un crocevia importante della sua carriera. Insieme ad “Amici miei” e “Un borghese piccolo piccolo” compone un trittico di ultimi grandi film monicelliani. Poi ci sarà il colpo di coda di “Speriamo che sia femmina” dieci anni dopo, ma in una chiave assai più impersonale. La stretta cronaca non si sposa più ai canoni della commedia all’italiana, tuttavia vi è in atto un altro cambiamento epocale nel tessuto sociale del paese: i rapporti di forza tra uomo e donna, il disorientamento maschile davanti a una donna che non accetta più di essere pura funzione sociale, ma chiede anche di esistere. Monicelli e i suoi sceneggiatori fondano l’opera su un triplice spunto: mutamenti sociali nella coppia, indagine della cultura popolare, e forme della stessa cultura. Il film non nasce nel nulla, ma ha già avuto un modello precedente pochi anni prima: “Dramma della gelosia” di Ettore Scola. Tuttavia, se Scola giocava scopertamente con i linguaggi da fotoromanzo riapplicati a una storia di popolani, Monicelli crede molto ai propri personaggi, li studia e partecipa al loro dolore e spaesamento. Gli schemi narrativi si fanno forti di caratterizzazioni collaudate e di pronta presa sul pubblico: il sindacalista di fabbrica agguerrito, lombardo e pieno di sé, il carabiniere meridionale ossequioso e retrogrado, la donna/ragazzina meridionale che trasfigura l’amore in un linguaggio da rotocalco. E’ di nuovo una commedia di “ipercaratteri”, in cui i conflitti sono aperti e gridati, accompagnati da uno sguardo attento allo squallore di interni, abbigliamenti, ritmi di vita, e pure un certo squallore dei corpi. Ed è una commedia che mostra ancora una caratteristica in via d’estinzione nel cinema italiano di quegli anni: l’ingenuo artigianato, ovvero il puro gusto di narrare una storia, senza interrogarsi troppo a monte su significati e contenuti. “Romanzo popolare” è per l’appunto un impasto tra le due tendenze, un film di transizione. La stessa ipercaratterizzazione dei personaggi denota già una crescente consapevolezza del cinema e dei suoi specifici canoni, cliché e linguaggi. Alle spalle di Monicelli, nel 1974, vi è già una storia del cinema di più di settant’anni, di cui si cominciano a riconoscere stereotipi e ricorrenze, e di cui, quindi, ci possiamo prendere gioco. Si sfotte il fotoromanzo, ma anche tutto il melodramma cinematografico italiano. Tuttavia, in “Romanzo popolare” è ancora difficile stabilire dove finisce l’ingenuità di scrittura e dove inizia la consapevole dissacrazione. E’ ancora, e tanto, artigianato, accozzaglia di ottimi spunti narrativi, amari come il fiele, e giganteschi scivoloni di gusto (la macchietta del collega di lavoro, interpretata da Pippo Starnazza, ma un po’ tutte le figure di contorno). E’ artigianato che ancora non vede scandaloso l’uso massiccio del doppiaggio, e non immagina nemmeno lontanamente che si possa girare in presa diretta. Ornella Muti, doppiata in italiano dialettale, è bravissima, la migliore interpretazione della sua carriera. Starnazza è addirittura doppiato da due voci diverse. E poi immense facilonerie nella sincronizzazione tra immagine e doppiaggio (si veda il cameo di un giovane Alvaro Vitali, doppiato in napoletano e peggio sincronizzato di quando lui stesso si ridoppiava nei Pierini), e bruttissimi scivoloni nelle sequenze oniriche. Eppure l’artigianato nel cinema di allora portava con sé come vantaggio secondario una pregnante intuitività d’indagine, ovvero uno sguardo sulla realtà mai troppo filtrato da riflessioni teoriche sul mezzo-cinema. La storia è narrata, ad esempio, da una voce off, totalmente extradiegetica, del personaggio di Giulio, a cui però si aggiungono, nel finale, anche le voci off di Vincenzina e di Giovanni. Qual è, dunque, il punto di vista narrativo? Chi narra cosa? Giulio narra tutta la storia, e quelle due voci come possono a loro volta intervenire? Si potrebbe teorizzare che la personalità di Vincenzina, fino a lì subordinata al marito, “prende voce” solo sul finale in quanto donna maturata e consapevole. Ma, temo, Monicelli ci riderebbe in faccia. Le scelte, con ogni probabilità, erano rapide e intuitive, mirate a una buona resa narrativa, niente di più.
“Romanzo popolare” non è un bel film perché illumina sui processi di mutamento della condizione femminile (narrativamente confinati a una veloce risoluzione in rapido montaggio sul finale), bensì perché racconta di un uomo e del crollo della sua visione del mondo. Giulio Basletti è narrato con vivissima partecipazione, con profonda amarezza, colto nel suo vedere e non-vedere l’età che avanza, e nella progressiva inadeguatezza del suo modello di vita alla realtà che si è costruito intorno. E’ uno sconfitto dal tempo, dai mutamenti d’epoca che lui stesso, con un po’ d’ipocrisia, sostiene in quanto fervido sindacalista. Una figura molto consapevole fin dall’inizio, ma che preferirebbe non esserlo. E’ il valore aggiunto personale di Monicelli, mai puro dissacratore, ma anche illustratore di personaggi amari e sconfitti da se stessi. Sul rifiuto dell’età, Monicelli ci darà poi “Amici miei”, altro esempio di immenso artigianato che ha, però, molto da raccontare. Quell’artigianato sparirà negli anni, e oggigiorno chi insiste ancora su quelle chiavi estetiche non produce mai buoni risultati. Perché? Perché l’ingenuità di quegli anni era vera, mentre adesso si può solo simulare uno sguardo ingenuo sul fatto-cinema. E la simulazione si avverte immediatamente.