Con 12 nomination all’Oscar e il Golden Globe già consegnato a Colin Firth, è talmente perfetto da sembrare finto
28/01/11 – Ultimo baluardo di un retaggio arcaico della moderna isola: agli inglesi piace quando si parla della propria famiglia reale. Lo dimostrano le pagine e pagine di tabloid stampati su di loro negli ultimi decenni, nonché un grande numero di film e, in particolare, di sceneggiati. Già nei lontani anni Trenta, ad esempio, fiumi di inchiostro, e poi di pellicola, si consumavano sul re Edward VIII. Tralasciando le sue simpatie naziste, il primogenito di George V e della regina Maria aveva dato “scandalo” abdicando al trono in favore del fratello Bertie per sposare come disse lui stesso “la donna che amava”, Wallis Simpson, un’americana con alle spalle due divorzi. Finora però sul povero Bertie – balbuziente dall’infanzia, che divenne il popolare re della “resistenza” col nome di George VI durante la seconda guerra mondiale, nonché papà dell’attuale Elisabetta II – un film non lo avevano mai fatto (solo uno televisivo su di lui e sua moglie diretto qualche anno fa di Giles Foster).
Il discorso del re è quel che si definisce un film in costume perfettamente British, sospeso fra Storia privata e pubblica di una figura rimasta sempre nell’ombra di quelle che nel suo tempo si sono stagliate più “rumorose” di lui agli occhi del popolo (Winston Churchill, il fratello Edward VIII, persino la moglie, la futura regina madre morta centenaria qualche anno fa). Il film di Tom Hooper si incentra proprio sul problema di linguaggio del re e sul rapporto di quest’ultimo con il suo logopedista, Lionel Logue. In realtà, il film si rivela una perfetta analisi in chiave psicologica delle conseguenze che un ambiente rigido può creare in un bambino diventato uomo, le dolorose sofferenze della sua crescita causate da disattenzioni e freddezza affettiva, dalla perdita del fratello minore Johnny, già “nascosto” al mondo perché epilettico e morto tredicenne in seguito a un grave attacco. Hooper, ma più di lui lo sceneggiatore David Seidler, costruisce un ritratto umano di una figura storica vista nella sua sfera privata, nella sua vulnerabilità di uomo con un difetto non da poco in piena era radiofonica, quando i governanti entravano nelle case della gente con la loro voce. Lo fa con ritmo e una buona dose di umorismo (sempre rigorosamente britannico) dimostrando di essere, oltretutto, a suo agio nella ricostruzione storica (la palestra televisiva con le miniserie Prime Suspect 6, Elizabeth I e John Adams è evidente). Eleganza estetica e struttura narrativa fanno di quest’opera un affascinante esempio di classe (e se c’è una cosa che non manca in questo film è proprio la classe!) filmica dove la realtà sociale e morale di una Nazione si mescola con la nebbia e il grigiore della sua capitale. La Londra fotografata da Danny Cohen è, infatti, meravigliosa così misteriosa, cupa, fredda, grigia.
Tutto è al suo posto, nessuno esce dalla propria linea sia dentro che fuori il film. Tutto è composto, tutto va come deve andare, tutti si comportano come devono comportarsi. Dai personaggi (troppo composti persino quando bestemmiano) agli attori che li interpretano, dalla ricchezza scenografica, musicale e di costumi alle competenze tecniche, registiche e di scrittura. Mai nessuno ha un capello fuori posto. I colletti sono rigorosamente inamidati. Ma, forse, è tutto “troppo”, tanto da sembrare privo di anima. Un po’ come quel Dorian Gray concepito dalla mente di Oscar Wilde: nasconde qualcosa che non và.
Titolo originale: The King’s Speech
Produzione: Gran Bretagna, Australia 2010
Regia: Tom Hooper
Cast: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Jennifer Ehle, Michael Gambon, Timothy Spall
Durata: 111′
Genere: storico
Distribuzione: Eagle Pictures
Data di uscita: 28 gennaio 2011
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