Ascolta le interviste di RADIOCINEMA ai protagonisti del film I fiori di Kirkuk:
(Dalla nostra inviata Giovanna Barreca)
09/11/10 – E’ stato riconosciuto un’opera seconda di interesse culturale dalla commissione per la Cinematografia del MiBAC e noi vogliamo qui sottolineare quanto ci abbia fatto piacere incontrare il regista curdo Fariborz Kamkari – da ormai 10 anni cittadino italiano – che per primo ha girato in Iraq un film in pellicola su una vicenda, il genocidio del popolo curdo da parte del regime di Saddam Hussein negli anni ottanta, ignorato, per ragioni economiche, da tutto il mondo. Ricordiamo che si parla del massacro di oltre 180.000 innocenti, sterminate utilizzando anche armi chimiche. Kirkuk, da cui prende nome il film presentato in concorso al 5° Festival Internazionale del Film di Roma, fu la città più martoriata del Kurdistan iracheno, bombardata e devastata dal regime, dove non c’è stato bisogno di un grande lavoro sulle scenografie perché determinate location sono ancora identiche a trent’anni fa’. E la scena finale riprende un luogo che realmente è quello della memoria dei tanti fiori ‘spezzati’. Come abbiamo dichiarato subito la stima per il coraggio del regista che ha fatto un viaggio doloroso in un passato così personale regalando un valore aggiunto all’opera, con altrettanta franchezza ammettiamo che il film girato in arabo, curdo e italiano non ci ha convinti. Il regista sbaglia già in fase di sceneggiatura volendo creare una narrazione che sposi sia lo stile occidentale che quello orientale: “Volevo dare alla storia un taglio occidentale, drammatico. Il dramma – come contrapposizione dialettica di punti di vista e visione dei fatti narrati – non appartiene alla tradizione letteraria e cinematografica orientale, maggiormente influenzata da un punto di vista unitario e da una visione poco frammentata, che scivola sulle condraddizioni, non le cavalca. Ho cercato, nella regia di includere la semplicità espressiva poetica della tradizione orientale”.
Così facendo non siamo stati trascinati in questa storia di sacrificio e dolore, di gelosia e tradimento che vede coinvolta la giovane dottoressa Najla tornata in Iraq per amore del compagno-collega curdo Sherko, conosciuto in Italia e ritornato in patria pe rragioni misteriose. La donna va a riprenderselo in Iraq e scopre cosa il governo, che la sua famiglia alto-borghese sostiene, sta facendo alla minoranza curda (ricordiamo che subirono lo stesso destino dei palestinesi: nel 1930 il popolo curdo venne diviso in quattro stati: Siria, Iraq, Iran e Turchia e in tutti fu ghettizzato). Con coraggio e determinazione Naja decide di assumersi una responsabilità individuale di fronte alla tragedia di massa. Una donna forte interpretata da una bravina Morjana Alaoui che ci è risultata convincente solo nelle scene all’interno del campo di concentramento, tappa obbligata per molte donne curde che subivano torture e stupri prima di essere uccise. Per il resto del film è una giovane eroina che cerca di vivere la sua appassionata storia d’amore ostacolata dal militare di turno che lei rifiuta. Nell’intervista che il regista ci ha rilasciato, ha sottolineato più volte quanto importante fosse raccontare una donna mediorientale che prende da sola le decisioni che riguardano la sua vita. Ma valorizzare una figura realmente esistita, ricordare –attraverso una pagina triste di storia – quello che rischiano ancor oggi diverse minoranza, non può bastare a fare un buon film di memoria. In uscita il 19 novembre per Medusa.
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