Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Parte in quinta American Horror Story, nuova fatica dell’accoppiata Ryan Murphy e Brad Falchuk, che ha ottenuto un notevole riscontro di pubblico e critica, nonché due nomination ai Golden Globe, in questo autunno televisivo. Si può dire che ne è stato l’evento principale, in particolare per lo splendido episodio pilota che introduce negli orrori della società americana. Perché in fondo è questo che vuole essere la serie: una metafora di quello che si nasconde dietro la perbenista società statunitense. E quale genere può raccontarla meglio se non l’horror? Gli autori prendono in esame tutti gli elementi tipici del genere più classico e li mescolano in una confezione di grande classe ed eleganza per un prodotto seriale dalle notevoli potenzialità, anche se non sempre messe a frutto. Una famiglia si trasferisce a Los Angeles, dove acquista una grande e antica casa degli anni Venti, per ricucire un matrimonio segnato dall’aborto di lei e dai tradimenti di lui. Ben presto quello che sembrava un vantaggioso affare si trasforma in un incubo per la bella famigliola, strani personaggi si aggirano per la casa e piano piano affiorano terribili storie degli inquilini che l’hanno abitata in passato. Nel frattempo la moglie Vivien scopre di essere incinta…
All’inizio, come ogni lavoro di Murphy, il prodotto procede molto bene nella sua mescolanza fra genere narrativo e critica sociale: le idee ci sono e sono tante, originali e innovative pur sempre ricostruite sulla scia dell’omaggio al cinema di genere, non solo all’horror, ma anche al noir e al poliziesco, in particolare quelli belli corposi degli anni Quaranta tratti dai lavori di Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Infatti, Murphy e Falchuk pescano nel sottobosco delle efferatezze della soleggiata Los Angeles riprendendo anche un po’ delle atmosfere di quel periodo (o meglio rifacendosi a quelle successive di James Ellroy), un omaggio palesato nell’episodio incentrato sulla Dalia Nera, soprannome di Elizabeth Short, vittima di un popolarissimo omicidio avvenuto a L.A. nel gennaio del 1947. Ed è forse dalla lettura di questo episodio che si palesa il tema portante della serie, tipico di Murphy e sviluppato anche nei suoi Nip/Tuck e Glee: l’ossessione tutta americana per il successo, per la bellezza, per l’arrestarsi del tempo senza la possibilità di invecchiare. A qualsiasi prezzo. In fondo questi sono i demoni della casa: morti che sono rimasti sempre giovani, corpi tramortiti dalla vita, ma non dal tempo, come Elizabeth Short, che voleva diventare un’attrice famosa (aveva tentato ma aveva girato solo dei filmetti pornografici) e alla fine sarebbe stata proprio la sua morte a gettarla nell’Olimpo delle star. Tra le altre cose Murphy ha dichiarato di essersi ispirato alla popolare Dark Shadows, soap opera degli anni Sessanta con Joan Bennett, diventata un cult e oggetto anche di un film di Tim Burton di prossima uscita, ma non mancano anche gli horror psico-sessuali di quello stesso periodo e riferimenti a Rosemary’s Baby di Roman Polanski con tanto di citazione della scena del parto.
Nonostante i suoi pregi però il meccanismo narrativo di American Horror Story non è privo di falle; in alcuni momenti le scelte narrative risultano piuttosto banali e prevedibili, spesso ridicole e giocate su colpi di scena che, pur non privi di effetto, appaiono forzati. Gli autori non riescono a sviluppare appieno l’ottimo materiale e le idee a disposizione, citazioni e rielaborazioni di generi ricchi di storie dalle quali attingere. Così, anche la struttura narrativa cambia registro parecchie volte e i tre personaggi principali, inizialmente ben articolati, si perdono poi nella banalità psicologica e introspettiva della crisi della coppia borghese e della solitudine adolescenziale, mentre prende piede la coralità dei personaggi secondari, sempre più ricchi di sfaccettature e dolori sopiti, a cominciare da quello della vicina di casa sociopatica Constance, un ritratto partito in maniera piuttosto macchiettistica e in sordina di una donna di mezz’età un tempo bella da togliere il fiato. La Constance che ha dovuto fare i conti con il fallimento di diventare attrice, con l’inesorabile invecchiamento, che è madre empia e bellissima, generatrice di mostri di crudeltà feroce e candida innocenza e di un solo angelo di luciferina bellezza, si rivela alla fine uno di quelli meglio costruiti, la chiave in fondo di tutta la vicenda. Merito è anche della straordinaria Jessica Lange che la interpreta (quale miglior scelta per un ruolo come questo!) e la porta alla luce procedendo per gradi, passando da un iniziale ritratto sopra le righe fino ad arrivare a un monologo finale intenso e crudele. Perciò American Horror Story parte in quinta e, purtroppo, finisce in seconda attraverso un finale che fa tabula rasa di tutto, in vista della nuova stagione che avrà nuovi protagonisti e una nuova casa. Ma se la serie non è priva di difetti è anche vero che trascina lo stesso lo spettatore consapevole, tanto da non poterne fare a meno.