Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Lo so, che ragione c’è di scrivere un articolo sulle casalinghe disperate più famose della tv quando ne sono stati scritti centinaia che hanno analizzato lo show di Marc Cherry in ogni sua virgola. Ma abbiate pazienza, voglio dire anch’io la mia a tal proposito, sia a chi lo ha osannato sia a chi lo ha massacrato. Ma per prima cosa dobbiamo domandarci, cos’è Desperate Housewives e cosa è diventato? Cos’era Desperate Housewives? Uno show innovativo e straordinario che metteva in ridicolo la società suburbana americana con i suoi meccanismi e falsi perbenismi attraverso le storie di quattro casalinghe di differente natura caratteriale, che rappresentano aspetti differenti delle varie gamme psicologiche femminili, e il dolore per la perdita di una loro amica, suicidatasi perché nascondeva un segreto che la dilaniava, che in qualche modo continua sempre ad essere presente. Uno spaccato sulla media borghesia dietro il quale si nascondono sofferenze con una graffiante impronta narrativa, raccontata con voce fuori campo dalla suicida Mary Alice Young, un espediente che ricalca capolavori filmici come Viale del tramonto e American Beauty. Tra comicità ed elementi di soap opera, dramma famigliare e thriller, il creatore Marc Cherry gioca con i generi e li mescola con una sapienza incredibile.
Cosa è diventato Desperate Housewives?
Una pochade che si appropria degli elementi grotteschi della critica alla società fino all’inverosimile, a volte denaturando la loro espressione. Una tarantella da soap opera che trasforma le situazioni sentimentali dei protagonisti in elementi sempre più ingarbugliati, giocando sull’affetto degli spettatori nei confronti dei personaggi. Il kitsch trova una nuova natura d’essere in Desperate Housewives attraverso un elemento comico che riduce le tinte fosche, tanto da bruciarsi prima di poter andare troppo oltre nell’aspetto drammatico, che si trasforma in pettegolezzo. Wisteria Lane è diventata una sorta di grande casa in cui l’empatia dei e fra i protagonisti gioca d’astuzia all’interno delle dinamiche delle storie intersecate. Altalenante la serie, dopo la prima stagione capolavoro, ha cercato deliberatamente di cambiare registro, pur rimanendo fedele a se stessa, esasperando gli elementi base sui quali è giocata, tanto da calare la sua qualità narrativa per concentrarsi sugli aspetti personali delle singole storie. In maniera alternata trova però ancora i suoi picchi sociologici e pur nelle estremizzazioni improbabili delle situazioni, a mò davvero di soap opera nei meccanismi (e non è un caso la scelta deliberata della fisicità e del curriculum di parte del cast), centra ancora il punto di certe realtà sociali piccoli borghesi. La settima stagione, l’ultima finora in ordine cronologico di un prodotto trasmesso in oltre 130 Paesi nel mondo, si risolleva rispetto alle due precedenti, davvero mediocri nella scelta della storyline annuali, proprio perché torna a concludere la vicenda principale della prima stagione, quella di Paul Young, portato a delinquere in seguito all’uccisione della signora Huber. Ed ecco così, che si ritorna al grande nemico di Wisteria Lane, il cattivo assassino infelice la cui moglie, Mary Alice, diviene testimone di tutte le loro vite. Ma perché ce l’hanno tanto con lui? Questo è in fondo il punto nodale della serie, che funziona sempre al suo meglio nel rilevare i limiti dei comuni mortali: le sue capacità di saper vedere i difetti sempre negli altri, mai in se stessi. In fondo nessuno è tanto meglio di Paul Young quanto a ipocrisia. Lo sporco e i segreti li nascondiamo tutti, per paura, per codardia, semplicemente per proteggerci: Carlos, Andrew (il figlio di Bree), Orson, Mike Delfino, Rex, Angie Bolen e tanti altri (comprese le stesse protagoniste) sono stati tutti portati a commettere crimini in situazioni altrettanto estreme. In questo le persone sono davvero elementi seriali. E l’unica ad averlo capito è stata Mary Alice Young, che racconta le loro vite e tocca sempre alla fine di ogni episodio, nel bene e nel male, il cuore del problema (la voce fuori campo non è mai stata così funzionale come in questo show). Quel che è certo è che, nonostante l’altalenante valore, Desperate Housewives resterà un cult della serialità e a suo modo, un po’ furbetto, un capolavoro del genere. E per quanto possiamo amarle o detestarle, nei loro pochi pregi e nei loro tanti difetti, non potremo mai fare a meno di Lynette, Bree, Gabrielle e Susan e degli abitanti di Wisteria Lane.