Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane
Happy Days- Parte seconda
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(Rubrica a cura di Erminio Fischetti)
31/12/09 – In Happy Days, la famiglia americana anni Cinquanta viene descritta senza alcuna critica, e come in una apologia idealistica. Negli anni Settanta, lAmerica, vittima di una politica piena di scandali (come il caso Watergate) e provata dal conflitto in Vietnam, è molto lontana dai dolci ricordi della televisione di venti anni prima, quando cerano Lucile Ball, Jane Wyatt e Jackie Gleason. Per la prima volta con il Vietnam, il sangue appariva rosso sul piccolo schermo e la famiglia americana viveva il periodo di maggiore disgregazione. Si pensò bene, quindi, che gli spettatori, per mezzora alla settimana, avessero bisogno di ritornare a rivivere i racconti spumeggianti dei prodotti passati. È così che Garry Marshall, ideatore della serie, nonché futuro regista popolarissimo grazie a film come “Pretty Woman” e “Frankie & Johnny” (“Paura damare”), realizza unopera in cui il fulcro fondamentale resta una famiglia idealizzata, dove lunico esempio di allontanamento dagli ideali piccolo borghesi è rappresentato da Fonzie, che è certamente un ribelle, ma un ribelle col cuore, capace di fare sempre la cosa giusta. In fondo, Richie e Fonzie sono due facce della stessa medaglia perché luno spinge laltro a sistemare i guai reciproci. Fonzie stesso, che una famiglia non lha mai avuta, trova il suo punto di appoggio nei Cunningham che sono la quintessenza di questo concetto così tanto analizzato dai sociologi e da ogni tipo di disciplina. Come lui ribadisce più volte, loro sono borghesi e fanno tutte quelle cose tipiche della loro appartenenza, anche se qualche volta vogliono negare questa loro condizione (specie Marion, che nonostante voglia sancire la sua indipendenza e il suo desiderio di emancipazione torna sempre nelle quattro mura domestiche dove riesce ad essere dispensatrice di consigli e di affetto verso tutti).
Ma se la famiglia è lapoteosi del racconto e il punto di arrivo per i personaggi, vi è anche una sottile critica verso coloro che non sono in grado di fare i genitori, come il padre di Potsie, che non vuole avere il figlio tra i piedi, o dello stesso Fonzie. Di conseguenza, come in ogni serie televisiva precedente alla metà degli anni Ottanta, la famiglia protagonista è il punto di arrivo, la migliore fra tutte quelle raccontate nel plot perché intorno a loro vi sono sempre situazioni più drammatiche, più critiche a cui i protagonisti danno uno sguardo e cercano di aiutare. Lelemento estraneo, che arriva da fuori, è sempre in una situazione più drammatica.
“Happy Days”, più che la reale famiglia dellepoca tratteggia quella televisiva dellepoca, senza tutti quegli elementi politici e storici problematici di cui fu vittima, come la guerra in Corea, lombra di Cuba e il futuro omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy nel 1963. Nonostante questo, però, un fondo di critica sociale non manca quando, come si è già detto, si parla delle famiglie altrui o quando, ad esempio, in un episodio, un nuovo poliziotto arrivato in città vuole far andare via Fonzie perché indossa il suo giubbotto di pelle ed è quindi considerato un diverso.
Indipendentemente dallassurdità della cosa, la scena finale, quando tutta la città, capeggiata dai Cunningham, si veste con jeans e giubbotto di pelle come forma di protesta per non far cacciare Fonzie da Milwaukee, sancisce la metafora degli imminenti cambiamenti e, soprattutto, di ciò che si nasconde dietro la patina delle casette a schiera pulite e ordinate: un desiderio di ribellione.
Happy Days
Titolo originale: id.;
Creatore: Garry Marshall;
Interpreti: Ron Howard, Henry Winkler, Marion Ross, Anson Williams, Donny Most, Erin Moran, Scott Baio, Tom Bosley, Al Molinaro, Lynda Goodfriend;
Produzione: USA, 1974-1984 (undici stagioni per un totale di 255 episodi);
Durata: 25 cadauno;
Distribuzione: Italia 1; Fox Retrò