Dalla nostra inviata Daria Pomponio
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Con l’entusiasmo e la curiosità dei debuttanti, due vecchie glorie del nostro cinema come Paolo e Vittorio Taviani si sono lanciati in un’impresa non facile: raccontare, tra realtà e finzione, la messinscena del “Giulio Cesare” di Shakespeare realizzata da Fabio Cavalli con i detenuti del carcere romano di Rebibbia. Girato in digitale e con un piccolo budget, Cesare deve morire è stato presentato in Concorso alla Berlinale 2012, dove ha incassato fragorosi applausi e l’Orso d’Oro come miglior film. E non si è trattato certo di un tributo “paternalistico” da parte del pubblico nei confronti dei detenuti; Cesare deve morire non è infatti un lavoro sul problema del sovraffollamento delle carceri italiane (argomento che pure è presente nel film), né sulle difficili condizioni di vita dei prigionieri, bensì una sorta di “saggio cinematografico” sul potere taumaturgico del teatro e dell’arte in generale. Quello che i Taviani ci vogliono mostrare non sono infatti i detenuti, ma gli attori. I corpi di questi interpreti, tra i quali spicca Salvatore Striano(Bruto), già attore in Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara e Gomorra di Matteo Garrone, ci raccontano, al pari delle parole del bardo, della loro lotta per la sopravvivenza, di insurrezioni contro la tirannia, di ansia di libertà.
Acuiscono poi il senso complessivo di autenticità dell’operazone, la scelta di lasciar parlare ciascuno nel proprio dialetto d’origine (idea alla base dei laboratori teatrali nelle carceri di Cavalli) e una stupefacente drammaturgia delle location. Ogni scena del “Giulio Cesare” prende vita infatti in luoghi diversi del carcere, dalla biblioteca al cortile (che diventa il foro), dai corridoi ai parlatori. I due registi però, va detto, cedono qua e là a qualche sottolineatura di troppo, mossi soprattutto dall’intenzione di creare un legame tra le vite di ciascun detenuto e i personaggi di Shakespeare. Disturba in particolare la scena in cui l’attore che interpreta Cassio commenta ad alta volce “a me la Roma di Shakespeare mi sembra la mia Napoli” o il macchiettismo dei secondini che dall’alto commentano le prove in cortile. A tratti qualche breve asincrono ci dice che la presa diretta non sempre è andata a buon fine, ma pazienza, è una sporcatura in fondo utile a ricordarci che anche il cinema, e non solo il teatro, ha il suo margine d’errore, il suo “bello della diretta”.
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