Bronson

10/06/11 - Follia e violenza nell'opera genuinamente anarchica di Nicolas Winding Refn, dedicata al prigioniero più famoso nel regno di Sua Maestà.

Prodotto nel 2008, arriva infine nelle sale italiane con OneMovie Bronson, film che ha contribuito a fare emergere il regista di origine danese Nicolas Winding Refn come uno dei più promettenti della sua generazione, non a caso, premiato quest’anno a Cannes per il suo ultimo lavoro Drive. Ispirato alla vita di un personaggio realmente esistito, Bronson non può essere però definito un biopic in senso stretto e, a scanso di equivoci, non tratta nella maniera più assoluta dell’omonimo action hero americano, prototipo cinematografico del duro e puro. Il protagonista di questa storia ben più allucinante è il carcerato più famoso (o forse dovremmo dire famigerato) d’Inghilterra, Michael Gordon Peterson, che dell’attore statunitense assunse lo pseudonimo nell’epoca in cui, tra un incarceramento e un altro, finì in un giro di lotte clandestine, tanto per tenersi in allenamento nell’attesa di piombare nuovamente tra le mura di una galera di massima sicurezza. Già senza il virtuosismo di Nicolas Winding Refn, la personalità di Bronson costituisce un incredibile crogiuolo di materiale umano, in cui violenza, ingenuità, follia, natura, vocazione, istinto e arte si uniscono in una personalità schizoide e senza freni, capace non solo di mettere a ferro e fuoco il sistema penitenziario britannico ma anche di esprimere un incurabile e irrefrenabile malessere nei confronti del vivere civile.

Nato in una famiglia-tipo della decantata working class, Peterson cominciò infatti sin da adolescente a lasciarsi andare ad assurde esplosioni di aggressività: unico mezzo verso la fama e l’emancipazione da un’esistenza già scritta e altrimenti destinata a consumarsi nell’anonimia di una villetta a schiera. Ecco così che il crescendo di sangue e sconsideratezza viene a coincidere con un insospettabile percorso di crescita artistica e in qualche modo di consapevolezza nell’uso del proprio irrazionale istinto di ribellione e di morte. Nicolas Winding Refn sposa così la biografia sconclusionata di un uomo senza possibili spiegazioni e ne segue l’esistenza senza cercare di ricondurla nei confini dell’intellegibile, ed esaltandone piuttosto il nonsense e i notevoli spunti estetici. Spunti che vanno dall’atmosfera fintamente immacolata di un istituto di igiene mentale, alla scoperta di una vena artistica che lo fa definire dal maestro del carcere come un “novello Magritte”, fino al fascino decadente dell’Inghilterra degli anni ’80. Un’operazione di sicuro non facile, ma sostenuta dall’indubbia capacità del regista di comporre immagini ironiche e potenti e di far emergere tutte le sfumature del suo personaggi attraverso la notevole interpretazione di un ottimo Tom Hardy. Il risultato è un film pieno di suggestioni e al contempo inafferrabile, sfuggente, proprio come il suo enigmatico protagonista, a cui sono gli stessi carcerieri stremati a chiedere: “Cosa vuoi che ne facciamo di te”?

LAURA CROCE

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