Dalla nostra inviata DARIA POMPONIO
Le Alpi sono uniche, non possono essere sostituite da altre catene montuose, ma potrebbero viceversa prendere il loro posto di altre montagne, e nessuno avrebbe niente da ridire. Questo è il singolare credo su cui una squadra segreta di “consolatori” a pagamento basa la sua attività. Composta da un’infermiera, un paramedico, una ginnasta e il suo allenatore, la squadra delle “Alpi” si occupa di sostituire il caro estinto per il periodo necessario all’estinguersi del lutto, recuperandone alcune abitudini e preferenze, talvolta ripetendone i dialoghi. Presentato in concorso a Venezia 68, Alpis di Yorgos Lanthimos, già autore dell’acclamato Dogthoot (candidato all’Oscar nel 2009) è un film complesso e disturbante che espone con sguardo disincantato le dinamiche mentali a comportamentali che investono chi viene colpito da un grave lutto.
Ma Alpis è anche un film che sul recitare, da intendersi sia come lavoro dell’attore, sia come quella imprescindibile necessità che ognuno di noi ha, di interpretare un determinato ruolo sociale. I nostri quattro protagonisti sono dunque “uno, nessuno e centomila”, nascondono la loro reale identità e preferiscono studiare e replicare quelle dei defunti. Il risultato è spiazzante e lo spettatore è tenuto continuamente sotto scacco da una realtà sfuggente, in cui non si riesce più a capire chi stia recitando e quale ruolo. Ottime le interpretazioni del cast, nel quale spicca la brava Ariane Labed, Coppa Volpi a Venezia 67 per la sua interpretazione in Attenbergh di Athina Rachel Tsangari. Rielaborando alcune teorie sulla postmodernità Yorgos Lanthimos ci ricorda dunque che viviamo in un mondo di copie e simulazioni: l’ermeneutica ci è preclusa e risalire all’originale è divenuto impossibile.