Dalla nostra inviata Lia Colucci
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Dopo la selezione alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes esce in sala distribuito da Teodora, a partire dal 23 marzo e censurato per i minori di 14 anni, 17 ragazze diretto dalle sorelle Delphine e Muriel Coulin a partire da una vicenda avvenuta nel 2008: 17 allieve di un liceo si sono fatte mettere incinte tutte nello stesso periodo in un paesotto della provincia francese. La capobranco Camille(Louise Grinberg che ha avuto una particina ne La Classe di Laurent Cantet che vinse la Palma d’oro nel 2009) comincia questa sorta di ribellione, gestita soprattutto attraverso il corpo, dove la gravidanza e la maternità significano libertà ed emancipazione. In realtà le registe, attraverso le protagoniste, muovono un attacco al cuore della società francese, ambientando la loro opera a Lorient, ex-cittadina industriale di fronte all’oceano che, se negli anni Cinquanta doveva diventare un sito modello per il futuro, ora è ridotta ad arsenale vuoto dove trionfa la disoccupazione. Le Coulin decidono di comune accordo di mettere il dito nella piaga su uno dei punti dolenti del disagio giovanile: la mancanza di lavoro e di prospettive. E anche la maternità diventa lo spunto per discutere di dubbi, della mancanza di ambizione degli adulti della provincia, dell’insicurezza dei ragazzi.
Sembra comunque trionfare in questa pellicola un unico vero valore: l’amicizia, vissuta come morbosità, come profonda identificazione con l’altro. Sul film si possono scatenare tranquillamente gli psicoanalisti, tanto questo lavoro è aperto a qualsiasi interpretazione e dissertazione, dall’antropologia alla filosofia. Peccato che le due Coulin lascino molti elementi in sospeso, elementi a nostro avviso fondamentali per una riflessione approfondita: abbozzano e non definiscono il rapporto genitori-figli, relazione importante che potrebbe chiarire qualche punto oscuro di questa allarmante vicenda. Se l’idea può dirsi originale – ma, come si dice in queste occasioni, la realtà supera la fantasia – le cineaste non sanno approfittare di un’occasione così ghiotta per fare un film leggermente sopra le righe, dove si assapori la vera libertà e si sia in grado di tracciare un percorso artistico innovativo: non bisogna per forza essere Terrence Malick di Badlands o in tono minore Dennis Hopper di Easy Rider, basta riflettere in maniera poco convenzionale sul proprio mestiere e creare un’estetica leggermente innovativa che non sia quella masticata e rimasticata dal cinema europeo o da quello indipendente americano.
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