(Dall’articolo Torino: 127 Hours del nostro inviato al 28°TFF, Alessandro Aniballi – Vai alla RECENSIONE FILM)
02/02/11 – Reduce dal successo interplanetario di The Millionaire (2008), Danny Boyle con 127 Ore, presentato al 28° Torino Film Festival, racconta la storia vera dell’escursionista Aron Ralston, che nel 2003 rimase imprigionato in un canyon nello Utah, a causa di un masso che gli cadde sul braccio destro e dunque per cinque giorni fu costretto a lottare per la sopravvivenza.
La vicenda, dal sapore herzoghiano, è trattata da Boyle con gli stilemi classici del suo cinema, una sorta di “allegria” della messa in scena, una ingenuità fatta sistema che gli permette di non retrocedere di fronte a nulla, sia che si tratti di affrontare il patetismo più bieco che di filmare atti estremi di autodafé. Nel cinema di Boyle è per l’appunto la presunzione (dell’ingenuità) a non porgli mai alcun problema sui limiti del visibile, anzi; finendo perciò per infastidire, per urticare. Che poi 127 Ore abbia un suo impatto è innegabile, ma allo stesso tempo va fatto notare che, di fronte alla costrizione di avere un unico personaggio in scena, Boyle banalmente decide di ricorrere a qualsiasi trito meccanismo possibile (si vedano i flashback del protagonista bambino o le estenuate ed estenuanti apparizioni dei suoi genitori). È, come sempre, la furbizia di Boyle a infastidire, quel certo atteggiamento insincero che era parso lampante in The Millionaire (e i cui germi erano presenti già in Trainspotting) e che magari in 127 Ore è un po’ più nascosto ma comunque ben percepibile.
Di fronte a una storia del genere Werner Herzog avrebbe compiuto la sua ennesima sfida alla natura (si veda Rescue Dawn, i cui presupposti non sono così dissimili da 127 Ore), mentre Boyle riduce tutto a puro esercizio spettacolare, in una costante ricerca della trovata a effetto (non a caso si fa un uso eccessivo e “osceno” della colonna audio, in particolare quando il protagonista prova a tagliarsi il braccio). E in ciò si rivela anche la mancanza di sincerità, per cui nessuno si è davvero messo alla prova nell’affrontare questo film e tutto resta schermato da un reticolo di effettacci che impediscono di avvicinarsi realmente al dramma del protagonista. Esemplificativa della rinuncia di andare fino in fondo alla vicenda è la scena in cui Ralston (interpretato da un comunque bravo James Franco), pur trovandosi di fronte alla morte, recede in ogni caso dall’idea di fare dell’autoerotismo: è un qualcosa che propone un comodo moralismo e che rivela una mancanza di problematizzazione del personaggio, proposto come novello “buon selvaggio” civilizzato. E questa sequenza va assolutamente presa come paradigma dell’atteggiamento di Boyle nell’affrontare la sfida di 127 Ore.
127 Ore, trailer: