Diario del 12 febbraio dalla 61. Berlinale
(Dalla nostra inviata Lia Colucci)
13/02/11 – Il terzo giorno del Festival di Berlino si è aperto con un film dalle tematiche apparentemente care a questa manifestazione: Terzo mondo, solidarietà umana, impegno sociale, medici che tentano di guarire epidemie incurabili. Tutto ciò è The Sleeping Sickness un film in Concorso di Ulrich Kohler con Pierre Bokma, Jean-Cristophe Folly e Jenny Schily, solo per citare alcuni degli attori.
O almeno lo è all’inizio, poi la pellicola si trasforma. All’interno del piccolo ospedale allestito in Camerun, Ebbo, il dottore, e Vera, sua moglie, cominciano ad avere i primi problemi, lei dopo troppo anni vuole ritornare in Germania con la figlia Helen per riprendere la sua vita normale. Anche gli altri medici sono completamente abbandonati a loro stessi e vittime della corruzione locale, che non diffonde gli stanziamenti dei fondi per i programmi internazionali. Tutti vivono in Africa alienati, personaggi beckettiani senza scopo e senza meta. A scoprire le carte arriva un supervisore nato in Francia ma di origini congolesi Alex Nzila (Folly), che non solo diviene oggetto del razzismo locale ma che si trova di fronte a un mondo distruttivo fatto di uomini perduti, di fantasmi. Ebbo vergognandosi di se stesso finirà con il fuggire dal valutatore. Una pellicola sostanzialmente noiosa,con una regia piatta che non sfrutta neanche le possibilità del paesaggio circostante e che finisce per lasciare in superficie tutti i temi e le problematiche trattate, a cominciare dalla psicologia dei personaggi. Parecchi i fischi in sala.
Se è vero che la sceneggiatura compone buona parte di un film, ne deve aver fatto buona lezione la regista tedesca Yasemin Samdereli con il suo Almanaya, Fuori Concorso. Ancora una volta sottolineiamo quanto le varie produzioni tedesche proteggano il loro cinema indipendente, che ha disegnato un gioiellino fatto di ricordi familiari: gioioso, a tratti surreale, che gioca molto sulla tradizione orale della narrazione e dei ricordi. Con un grande senso dell’ironia, la storia narra di Huseyun Yilmaz, un turco che vive ai confini con l’Anatolia ed è costretto per mancanza di lavoro a emigrare in Germania. Qui, dopo qualche tempo, riuscirà a portare anche la moglie Fatma e i suoi tre figli, con esilaranti scene dei primi tempi da emigranti. Finalmente, dopo circa 50 anni, ottiene il passaporto tedesco e per l’occasione annuncia che ha appena acquistato una casa nel suo paese d’origine e porterà a vederla con sé tutta la sua famiglia, che intantoè notevolmente proliferata. Così comincia il grande viaggio che diventa un viaggio della memoria, dei ricordi e forse un viaggio di cui Yilmaz non vedrà mai la meta: una casa quasi inesistente. Ma come per dirla alla Kavafis, non è il luogo da raggiungere il vero obbiettivo, ma le conoscenze e le bellezze che ne hai ricevuto. Il bello è stato il viaggio non la meta dunque. Il finale drammatico è la parte più debole del film, che resta comunque un ottimo prodotto che probabilmente non arriverà mai nelle nostre sale.
Forse perché doveva essere uno degli eventi del Festival, forse perché era stato un successo al Sundance, ma Yelling to the Sky di Victoria Mahoney, in Concorso, non ha di certo percorso una via che non conoscevamo. Ambientato in una New York ormai nota – quella dei quartieri poveri e degradati – narra la solita vicenda di una famiglia di disadattati, padre alcolista e violento, madre mentalmente instabile e le due figlie: Ola, la più grande, è incinta giovanissima da un ragazzo che detesta o che ha visto troppo poco per odiare, e infine la vera protagonista, Sweetness (Zoe Kravitz). Vissuta in questo ambiente, condito anche di bad gang e di persecuzioni scolastiche, la ragazza è al bivio tra due anime, quella positiva di brava studentessa e quella negativa fatta di droga, discoteche e anche di rivenditrice di sostanze stupefacenti. In perenne conflitto con il padre, ma non solo per quello, finirà con lo scegliere la seconda strada che la porterà direttamente alla rovina, soprattutto dopo la morte violenta del suo rifornitore di droga. Ma anche questo non basta: la nostra Sweetneess deve ancora toccare il fondo, e dopo l’ennesimo mix di alcol e droghe, arriva a distruggere la tanto faticosamente guadagnata macchina della sorella. A questo punto la storia ha una svolta troppo repentinamente buonista: il padre si redime, forse gli dèi esistono, e preoccupato comincia a seguirla ovunque, la madre sembra ritrovare un improvviso seppur tardivo equilibrio, la sorella le affida finalmente la bambina partorita, Ester. Insomma il quadretto familiare si ricompone quasi per miracolo e Sweetness O’Hara sente per la prima volta di aver un padre, una famiglia e una casa.
Insomma assistiamo per l’ennesima volta alla parte nera dell’American Dream, ma solo per poco, poi ci pensa la Mahoney a rimettere a posto le cose in maniera poco credibile. L’importante è crederci (poi ognuno è libero di restare nel suo scetticismo).