In principio fu il libro. Così, per l’ennesima volta, Marc Forster – che non è affatto statunitense né tantomeno angolofono di nascita ma svizzero tedesco – si è ritrovato a dirigere un film direttamente collegato a un’origine letteraria, un testo scritto. Qui in particolare al World War Z cartaceo di Max Brooks: un caso letterario particolarmente gradito alla critica soprattutto per la reinvenzione feconda di un genere e per la sua scaltrezza stilistica, visto che da una storia di zombie Brooks tirava fuori una speculazione geopolitica, un’esplorazione antropologica costruita da voci multiple e disperse raccolte all’indomani di una lunga e sanguinosa guerra mondiale contro l’improvvisa comparsa di una nuova genia di zombie.
Dell’idea di Brooks restano brandelli sparsi. Prima di tutto perché il film di Forster invece di mantenere la forma memoriale retrograda – che poteva convenientemente esser portata sullo schermo come collezione ordinata di flashback – sceglie il più triviale sviluppo lineare; poi perché la densità delle notazioni non troppo velatamente critiche – cioè di analisi e commento rivolte implicitamente alla concretezza storica del mondo reale, versate e inserite nel racconto fantascientifico/orrorifico – viene quasi del tutto persa in favore di un decorso narrativo molto più vicino al videogioco d’azione che al romanzo di fantascienza. E in effetti se si volesse far ricorso a facili formule di definizione, World War Z potrebbe essere facilmente visto come un incrocio – aggiornato – tra 28 giorni dopo e il primo Resident Evil. La vicenda del libro infatti – un ex operativo dell’ONU a riposo viene richiamato in servizio per rintracciare l’origine di una misteriosa epidemia che sta riempiendo il mondo di zombie – si trova riscritta dentro un dispositivo narrativo tipico del blockbuster adrenalinico: la missione del protagonista si realizza come serie di micromissioni risolte tra mille peripezie e nonostante mille ostacoli imprevisti, arricchita da un piccolo corredo di spunti sentimentali (l’amore tra il protagonista e la moglie lontana) e qualche scambio sapido d’allusione al mondo extracinematografico (il migliore forse quello dedicato all’efficienza della dittatura nordcoreana, riuscita a salvare la nazione dal contagio per esser stata capace di attuare in tempi rapidi provvedimenti sanitari cinicamente estremi). E’ la costruzione per quadri – scene compatte ordinate intorno allo sviluppo della tensione – in particolare a ricordare da vicino la progressione del videogioco, che pur non impedendo di godere l’avanzamento della storia toglie spazio ai suoi possibili sviluppi più complessi, mantenendo invece il film sul terreno elementare dell’effetto emotivo.
Il tocco europeo però si sente (anche grazie alla scelta di un cast, Pitt a parte, tutt’altro che americanocentrico, a cominciare dal nostro solido ancorché poco sfruttato Pierfrancesco Favino) e Forster riesce comunque a guarnire con gusto una pietanza pensata e preparata come piatto essenziale, cucinato a partire da pochi ingredienti di base. Il trucco, gli effetti visivi, la scelta delle scene seguono tutti l’ispirazione dell’understatement e, insieme a una regia discreta ma efficiente, fanno in modo che la paura si addensi spessa e costante ai margini dell’inquadratura, nel fuoricampo. Anche lo stile della recitazione sembra seguire un registro di essenzialità che aiuta a conferire credibilità e concretezza alle dimensioni dell’incubo nel quale sembra precipitare un mondo fittizio ma verosimile in cui la comunicazione di massa e la globalizzazione sembrano essere più una tara che dimensioni diverse del progresso e della civilizzazione universali, e nel quale sembra esserci poco spazio per la solidarietà e di più per la facile quanto improduttiva legge del più forte.
Nota di chiusura: il film (com’è già stato per il libro) prevede – più o meno esplicitamente – un seguito, della realizzazione del quale sarà l’esito al botteghino a decidere. Un insuccesso tutt’altro che improbabile sarebbe la premessa solo all’ultimo della serie dei sempre più numerosi casi di saghe, trilogie, e serie cinematografiche abbandonate subito dopo aver visto la luce.
SILVIO GRASSELLI