Il Torino Film Festival è la vetrina italiana più prestigiosa del cinema autoriale e indipendente e quest’anno per il trentennale sono iniziate una serie di proiezioni e di incontri straordinari, come quello avvenuto martedì sera nella sala 1 del Cinema Massimo con Werner Herzog che apre ufficialmente la sezione 2012 del TFF documentari. L’autore bavarese è tornato nella città che nel 2008 gli dedicò – curata dal Museo Nazionale del cinema e dal TFF – una retrospettiva completa, una mostra alla Mole Antonelliana e un volume monografico curato da Grazia Paganelli, edito da Il Castoro. In una città che ha un pubblico davvero unico in Italia per attenzione, passione e coinvolgimento (ha impressionato lo stesso regista, visibilmente soddisfatto al termine della chiacchierata post-proiezione proseguita oltre la mezzanotte) abbiamo assistito ai 4 episodi di Death Row, realizzati per il canale televisivo Investigation Discovery e che sono una sorta di prosecuzione di Into the Abyss (presentato l’anno scorso al TFF). Herzog nel film documentario del 2011 si confrontava con un detenuto e intervistava parenti, guardie. Qui l’incontro è con 3 uomini e una donna che si trovano nel braccio della morte, in attesa che la sentenza venga eseguita. Ogni episodio inizia con le immagini dell’ultima cella dove verrà portato il detenuto poche ore prima dell’esecuzione, con la macchina da presa che poi percorre tutto il corridoio che porta nella camera della morte, con dettagli degli oggetti presenti. Seguono poi le parole di Herzog che desidera precisare e prendere subito posizione sulla questione: “Uno Stato non dovrebbe permettere – in nessuna circostanza – l’esecuzione di nessuno per nessuna ragione. Come ospite degli Stati Uniti, essendo io tedesco, sono rispettosamente in disaccordo con la pratica della pena capitale”. Come per Into the Abyss qui domina il peso di immagini/ritratti di uomini e donne e dei colloqui – gli è concesso di filmare solo un’ora per ogni incontro – che sono ripresi da due videocamere e permettono di inquadrare in primo piano e in campo medio l’intervistato e mai il regista del quale sentiamo solo la voce. A colpire è la capacità di Herzog di entrare subito in perfetta sintonia con i suoi interlocutori, porre domande che a volte appaiono spiazzanti ma che il più delle volte penetrano profondamente nell’animo degli uomini, e noi spettatori possiamo coglierne tale potenza riflessa degli occhi dei detenuti. Perché al regista non interessa accertare la colpevolezza o l’innocenza del detenuto, portare avanti una tesi ma solo confrontarsi con loro e come dichiara: “Conoscere in profondità quello che c’è nel cuore degli esseri umani”. E non solo, le domande – mai scritte o preparate precedentemente – permettono ai detenuti di andare oltre il loro stato. Ascoltandoli gli spettatori possono vederli al di fuori della loro condizione di prigionieri. Inoltre i dialoghi hanno anche un’altra caratteristica: permettono agli spettatori di interrogarsi, porre in discussione un sistema di valori ai quali non diamo alcun peso, come la libertà di guardare un albero, godere dell’acqua piovana sul viso …cose che diamo troppo spesso per scontate. Una spettatrice ha chiesto al regista, a tal proposito, perché abbia chiesto a James Barnes (pluriomicida) dei suoi sogni, perché il tema del sogno è presente in tante pellicole e Herzog non solo l’ha trovata un’osservazione attenta ma ha riflettuto rispondendo che a lui non capita mai di sognare ed è forse per questo che è interessato a quelli fatti da altri e nei film di finzione ne inventa tanti. E conclude: “Quelli dei detenuti sono molto affascinanti e se potessi trascorrere più tempo con loro, vorrei anche inventare parte dei loro sogni e permettere loro di poterli raccontare”.
Non possiamo riportare tutte le riflessioni nate dall’incontro ma solo una delle ultime per l’analisi critica e non solo, inclusa in essa: un ragazzo ha chiesto il legame tra queste opere sui detenuti nel braccio della morte e Grizzly Man, sulla vicenda di Timothy Treadwell. Herzog sorpreso ha affermato che sente esserci un feeling tra i due film perché hanno la stessa intensità ma non sa spiegarsi neppure lui ancora il forte legame che li unisce.
In rete è possibile visionare il lingua originale il primo episodio e lo trovate a seguire. Invitiamo tutti a visionarlo e a rivedere Grizzly Man per rispondere alla domanda posta al regista e per confrontarvi con due storie, allo stesso tempo, di vita e di morte.
Una volta il festival torinese si chiamava Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino e dal 19 al 21 ottobre a Pieve di Nievole in provincia di Pistoia si svolgerà una kermesse dal titolo quasi omonimo (come gli intenti autoriali): Festival cinema giovane, organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dell’associazione Cantiere di Critica Culturale. Nel programma, laboratori con gli studenti delle scuole del territorio, la ritrovata collaborazione con Encounters Short Film and Animation Festival di Bristol, la visione di film con importanti tematiche adolescenziali come Tomboy di Céline Sciamma e L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin e poi la prestigiosa retrospettiva delle opere di Lotte Reiniger, raramente proiettate in Italia.
Per maggiori informazioni: http://cinemagiovane.blogspot.it/.