Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Sposando la denuncia sociale e trasformandosi in finestra sul mondo che si interroga, il Festival dei Popoli presenta in concorso, in prima nazionale dopo l’ottima accoglienza al Festival di Locarno ad agosto, Vol spécial di Fernand Melgar. L’autore, a sua volta figlio di anarco-sindacalisti esiliati a Tangeri ed emigrati clandestini in Svizzera nel 1963, con un’evidente empatia, entra in uno dei 28 centri di detenzione che il governo elvetico, dopo un referendum popolare, ha creato per incarcerare tutti coloro che vengono trovati in Svizzera sprovvisti di permesso di soggiorno. Senza ricevere alcun processo e successiva condanna o assoluzione, i migranti vengono ospitati (una delle guardie ci tiene ad usare questo termine) in questi non luoghi asettici per trascorrere un periodo che può durare anche due anni di vita. Liberi di muoversi all’interno della struttura dalle 9 del mattino alle 9 di sera e rinchiusi a chiave nelle celle durante la notte, restano in attesa della possibilità di essere rimpatriati con un po’ di soldi in tasca direttamente su un volo di linea, da uomini liberi (la polizia li scorta e si assicura che salgano sull’aereo). Oppure, in caso di rifiuto, dopo qualche tempo, vengono costretti a salire su un “volo speciale”: ammanettati e impossibilitati a camminare autonomamente vengono portati in aeroporto e scortati da prigionieri fino al paese di origine. Come ricordano le ultime immagini da un tg nazionale, alcuni di questi viaggi hanno esiti tragici: alcuni detenuti, a causa dei metodi violenti adottati dalla polizia, hanno perso la vita.
In Vol spécial, più che i pochi minuti di passaggio in aeroporto, Melgar filma, per oltre un anno, la realtà del centro di detenzione Franbois e le ripetute negazioni dei diritti umani. Non gli interessano null’altro che i volti dei protagonisti di questi luoghi: macchina da presa al servizio di ogni loro movimento, di ogni loro emozione. La sopravvivenza, dai pasti alle chiacchiere, alle liriche scritte da chi, recluso, esprime attraverso la musica, il suo stato di insofferenza: un urlo di dolore che spezza il clima così surreale del centro dove regna una tale precisione e un tacito rispetto delle regole da apparire davvero irreale. Tutto così composto, in ordine, pacato da non sembrare vissuto da persone ‘vere’ ma più che altro da uomini arresi alla situazione. E tutti vivono in attesa di una notizia dall’alto che inevitabilmente cambierà il destino di chi vive a Franbois: il timore del rimpatrio forzato e la sua connaturata illogicità. Quale cittadino elvetico, infatti, se messo nella condizione di riflettere serenamente su un tale stato di cose, troverebbe corretta l’applicazione della legge anche su migranti suoi connazionali che, magari da vent’anni, hanno contribuito regolarmente alla crescita della comunità, lavorando, pagando le tasse e mandando a scuola i propri figli, nati in Svizzera? E chi acconsentirebbe al rimpatrio forzato di giovani che temono di tornare nel loro paese natale per paura di essere uccisi? Dopo La fortesse, per Melgar era importante concludere il discorso sui migranti mostrando i centri di detenzione e con il suo Vol spécial può aiutare, non solo gli Svizzeri, ma anche i vicini europei a capire quali conseguenze portino nel concreto alcune leggi sull’immigrazione. A Firenze, dopo la proiezione si è tenuto un dibattito con Vladimiro Polchi (Repubblica), Fernando Vasco Chironda (Amnesty International) e Francesca Nicodemi (associazione di Studi Giuridici sull’immigrazione) per rendere anche i cittadini italiani più consapevoli della situazione. Perché la rabbia e l’amaro in bocca lasciato a tutti, dopo la proiezione, potesse trasformarsi in altro.