Vivan las Antipodas!

31/08/11 - Il secondo film d'apertura di Venezia è Vivan las Antipodas!, fuori concorso per un'opera che sfida i confini tra documentario e fiction.

Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI

E’ tempo di film-mondo. Opere che tentano un discorso impervio, ambiziosissimo e inevitabilmente imperfetto sull’unicità dell’esperienza umana. La vita, ovunque, sotto forma di eventi naturali, coincidenze imprevedibili, e soprattutto sotto forma di rapporti umani. E’ di pochi mesi fa l’uscita mondiale del discutibilissimo The Tree of Life di Terrence Malick, in cui il discorso-fiction tentava una narrazione “totale” nientemenoché intorno al mistero della vita. Oggi Viktor Kossakovsky presenta come seconda apertura fuori concorso a Venezia 68 un’opera di difficile collocazione. Noto come documentarista (e autodefinitosi tale) negli ambienti dei cinéphiles e dei festival di tutto il mondo, in realtà l’autore russo presenta un’opera che slabbra volutamente i propri confini, geografici e formali. Partendo dall’idea di raccontare brani di realtà colti letteralmente agli antipodi (alle campagne arse dell’Argentina corrisponde la brulicante Shanghai, a un’isola vulcanica delle Hawaii un sabbioso villaggio del Botswana, e così via), Vivan las Antipodas! tenta di ricondurre tramite l’esperienza estetica i principi della vita a un’unica realtà che tutto tiene insieme. Si tratta di una riflessione innanzitutto sul mezzo-cinema, sfruttato nel suo fondamento più elementare: l’interazione, armonica o dissonante, tra immagine in movimento e suono. Kossakovsky, diciamolo, spesso si compiace del proprio apparato espressivo, fin troppo innamorato della propria intuizione iniziale da giocarci sopra all’infinito. Corrispondenze visive tra “sopra” e “sotto”, giochi di specchi tutti centrati sul mondo-sfera e ripetuti fino allo spasimo, ardite riprese circolari e un’affascinante ma insistita cura della fotografia.

Tuttavia, quel che appare interessante è la combinazione tra spirito documentaristico e rielaborazione del reale. “Ho scelto questi luoghi perché li volevo raccontare”, dice Kossakovsky, “Ho visitato più volte posti diversi, ma alla fine ho optato per luoghi che fossero interessanti per l’arte cinematografica, sotto un profilo visivo, non necessariamente drammatico”. E ancora “Fare un film è un’occasione per imparare qualcosa. Se sapessi già cosa filmare, non farei il film. Amo fare le cose che non so fare. Di solito si filma ciò che si ama. Io invece amo ciò che filmo, finisco per amare ciò che ho trovato”. L’intenzione, dunque, è dichiaratamente documentaria. Ma poi l’autore ammette che per lui “il movimento visivo, concepito per il grande schermo, dev’essere anche emotivo, personale”. Insomma, la tendenza creativa dell’autore è evidente, e innerva un discorso estetico in cui l’autore suggerisce una propria visione del mondo, facendosi forte di una struttura narrativa ben precisa. La rielaborazione del reale in senso narrativo emerge non solo nell’uso strategico del montaggio, ma anche nei pochi dialoghi tra le persone prese dal vero, che spesso appaiono “imbeccati”, troppo poeticizzanti per poter essere spontanei. Film imperfetto, dunque, che però riconferma una volta di più la sempre più stringente rarefazione dei confini tra categorie estetiche forse superate. Al di là del documentario, al di là della fiction, resta il cinema, come sintesi espressiva tra immagine, movimento e suono.