Venezia:Hellman e Miike

10/09/10 - Venezia 67: entusiasmante "13 Assassins" di Takashi Miike, mentre "Road to Nowhere" di Monte Hellman...

Venezia 67: entusiasmante 13 Assassins di Takashi Miike, mentre Road to Nowhere di Monte Hellman si perde in un risaputo gioco cinefilo

(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

10/09/10 – Se la Giuria fosse composta solo e soltanto da Quentin Tarantino, non avremmo dubbi in quale rosa di film dovremmo andare a cercare il Leone d’Oro 2010. Di sicuro le due opere passate oggi in concorso riscuotono tutte le simpatie del buon Quentin: 13 Assassins di Takashi Miike perché appartenente in tutto a uno degli immaginari da lui più esplorati, Road to Nowhere perché di quel Monte Hellman che gli finanziò l’esordio in Le iene. Autore appartatissimo, indipendente anni ’70 che ha sempre lavorato sui generi e li ha rinnovati. Tra i due, pare molto più riuscito il film di Miike, e può darsi che Tarantino riesca ad assegnargli pure qualche premio. Un po’ perché il cinema orientale vive una delle sue stagioni di maggiore successo internazionale, e soprattutto perché 13 Assassins si presenta come opera solida e compattissima. Benché provenienti da due cinematografie ben diverse (cinese e giapponese), Miike convince assai più dell’ultimo Tsui Hark, entrambi accomunati dalla combinazione storia-arti marziali. Tanto si mantiene personale e avvincente il primo, quanto si disperde in un immaginario globalizzato il secondo.

Takashi Miike è un autore prolificissimo, che spazia nei generi più diversi e con riuscite decisamente diseguali. Con 13 Assassins compie una miracolosa fusione delle sue diverse tendenze. Restando fedele, soprattutto nell’incipit, alla sua ispirazione sadicamente horror (alcune violenze sono al limite della tollerabilità), abbina lo spunto storicistico a un’impaginazione rigorosa, scandita in due sezioni narrative ben distinte. Tutta la prima parte mantiene un passo quasi teatrale, e tesse con eleganza il complicato mosaico di alleanze all’interno di una faida di potere tra samurai. Come sempre nel più recente cinema d’azione e arti marziali di tutto l’Estremo Oriente, la collocazione storica tende a farsi pretestuosa man mano che il racconto procede, lasciando a poco a poco il posto a un’esposizione puramente cinematografica. Così, tutta la seconda parte esplode in un’unica, lunghissima sequenza d’azione, in cui le due fazioni contrapposte giungono a un sanguinosissimo scontro. Lascia letteralmente stupefatti la perizia tecnica di riprese, montaggio e coreografia delle scene d’azione, se si considera poi che Miike ricorre quasi esclusivamente a strumenti visivi tradizionali, senza profusione di effetti speciali. Un esempio di altissimo rigore espressivo che ha davvero molto da insegnare al resto del mondo, e che permette di rendere memorabile anche un film medio e culturalmente convenzionale.

Monte Hellman, invece, imposta un complicatissimo gioco noir sul mondo del cinema. Piani di realtà che s’intersecano, si mischiano, si sovrappongono, imitando i classici del noir e sfrangiando a poco a poco i confini tra le varie ontologie messe in gioco. Niente che non si sia già visto, in effetti. A fronte di una notevole eleganza visiva, il gioco ha il fiato corto. Colpa, in buona parte, di una sceneggiatura asfissiante, che non dà mai modo di appassionarsi ai suoi collaudatissimi incastri da scatole cinesi.