L’Italia si è dimenticata di Aldo Braibanti, filosofo, drammaturgo, poeta dal pensiero libero, tra i più influenti negli anni Cinquanta e Sessanta e poi ‘scomparso’ perché condannato a 9 anni di prigione per plagio, per avere – secondo l’accusa – sottomesso un giovane studente sia psicologicamente, sia fisicamente al suo volere. Un giovane omosessuale come lui che per la famiglia era nato sbagliato e quindi andava curato con l’elettroshock, tanto da non tornare mai più lo stesso, una volta uscito dall’ospedale. Omosessuale, parola che non esisteva neppure nella lingua dell’epoca o in quella dell’ordinamento giudiziario, tanto che durante tutto il processo che viene messo in scena da Gianni Amelio ne Il signore delle formiche, in concorso alla 79esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, non viene usata.
Il regista calabrese sente l’urgenza di raccontare una storia del passato con un processo che fu specchio del nostro paese ma che forse, purtroppo, lo è ancora, con un’arroganza che pervade(va) tutto e tutti. Il giornalista dell’Unità Ennio Scribani (figura inventata da Amelio), durante un colloquio molto intenso in carcere, invita Braibanti a smontare l’arroganza, a rispondere a chi lo accusa di essere un assassino solo perché ha sparato sulle coscienze. Ma con lucidità il filosofo sa che non si può cambiare chi ha il potere e davanti alla farsa che è in atto contro la sua figura, non sa difendersi. Non vuole farlo.
Nel film prima di arrivare al processo del 1964, si compie un passo indietro nel 1959 e si scopre l’animo e la freschezza culturale dell’uomo Braibanti che scrive, guida i giovani della sua compagnia teatrale, ascolta, legge e si lascia avvolgere dalla bellezza. Scopriamo in questa prima fase anche il Braibanti (Luigi Lo Cascio) mirmecologo (questa l’origine del titolo del film) perché adorava le formiche, adorata il loro restare insieme per non perdere la strada di casa, il loro mettere il bene collettivo davanti agli egoismi perché, forse, avrebbe tanto voluto vivere in una società guidata da tale principio.
Nel film la storia d’amore, di complicità fisica ma soprattutto intellettuale con il giovane Ettore Tagliaferri (Leonardo Maltese) che nella realtà si chiamava Giovanni Sanfratello è raccontata con scene piene di tenerezza e brillantezza intellettuale perché il giovane venne sì influenzato da Aldo ma solo a credere in sé stesso (come farebbe ogni ottimo docente con il suo discente), a credere nel suo talento, a coltivare le sue passioni, soprattutto quella per il disegno mentre la famiglia desiderava per il giovane un futuro da medico.
Credeva nel rinnovamento della società e fu vittima della sua faccia più vecchia e oscura e Amelio tutto questo lo sa mettere bene in scena creando anche un bel contrasto tra il giornalista Ennio Scribani (Elio Germano)e un giovane avvocato calabrese che crede che ci siano ancora uomini che agiscono contronatura. Braibanti si divertiva a rovesciare le convenzioni più sacre, voleva un teatro che non cercasse a tutti i costi il significato, tanto che anche nel film grida: “Per il significato non serve il teatro, basta il vocabolario!”.
Nel film non ne esce una figura controversa come lo ha descritto più volte la cronaca ma solo e soprattutto una mente brillante che ne ha cercato di uccidere il pensiero.
Nelle nostre interviste il regista e gli attori protagonisti ci raccontano l’importanza di questo film oggi e come hanno lavorato per i loro ruoli, tutti di persone realmente esistite tranne il giornalista interpretato da Elio Germano che vuol essere il punto di vista di un giovane di sinistra più fedele ai suoi ideali che alla linea del partito.
giovanna barreca