Venezia: Somwhere, silent souls

04/09/10 - Venezia 67: cenni di ripresa in concorso con il piacevole "Somewhere" di Sofia Coppola e...

Venezia 67: cenni di ripresa nella selezione concorso con il piacevole “Somewhere” di Sofia Coppola e lo struggente lamento di “Silent souls” di Ovsjanki di Aleksej Fedorchenko. Tuttavia, ancora nessun acuto

(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

04/09/10 – “Johnny, il suo film ha a che fare con la globalizzazione?”: forse si può partire da una battuta, presa da una scena tra le più divertenti (ma anche più facili) di Somewhere di Sofia Coppola, per abbracciare in un unico discorso, magari un po’ schizoide, i due film passati ieri in concorso alla 67. Mostra del Cinema di Venezia. Culturalmente, stilisticamente, visceralmente distanti, ma entrambi intenti a parlarci di vuoti esistenziali, scontati e pure un po’ irritanti per Sofia Coppola, dolorosi ai limiti della resistenza umana per Aleksej Fedorchenko.

somewhereSomewhere, innanzitutto, è una commedia, anche molto più classica di quanto vorrebbe essere. Sotto molti aspetti somiglia a un remake di Lost In Translation, in cui di nuovo un personaggio devastato dallo “stress da successo” si ritrova a scontrarsi con l’alterità, percependo a poco a poco tutto il vuoto e l’assurdo su cui la sua vita si fonda. Stavolta l’alterità si concretizza sotto varie forme: agenti schizzati, surreali conferenze stampa, una figlia, e ancora l’alterità culturale. Dopo il Giappone, l’Italia, identificata (sarà un caso?) nella sua forma più ostentata di barbara volgarità: la televisione, con le sue insostenibili serate di premiazione all’insegna di kitsch e falsa cultura. La sezione italiana, sia detto, è goffa e infelice, e per fortuna occupa una parte minima del racconto. Il resto è buona commedia, condotta sul filo di un ottimo senso dell’assurdo e del surreale, dote peraltro già nota in Sofia Coppola. Ci sarebbe da essere contenti, dunque, a patto però che non si voglia cercare nel film, o attribuirgli arbitrariamente, qualcos’altro se non le buone credenziali di una riuscita commedia (che già non è poco). Perché il vuoto esistenziale di un attore di successo, che oltretutto non trova mai una compiuta espressione nel racconto, suona sempre di falso problema, e, sia giusto o sbagliato, si finisce per non credergli mai. Meritevole prova attoriale, comunque, di Stephen Dorff, attore che ha sempre girato film al di sotto delle sue possibilità.

Ovsjanki (Silent souls), al contrario, aderisce in primo luogo a una scelta di genere difficilmente definibile. Potremmo dire docufiction, ma in realtà si tratta di un’opera totalmente finzionale, che al contempo assorbe elementi narrativi da documentario. E’ dominato, infatti, da una voice over che, se ci trovassimo nella pura fiction, apparirebbe senza dubbio inutile e invadente, ma che qua trova incredibile funzionalità proprio per la natura ibrida del racconto. La voice over, in questo caso, conferisce profondità alla narrazione, moltiplica la prospettiva di un discorso intorno alla sparizione dei Merja, minoranza etnica ugro-finnica in territorio russo. Fedorcenko, in appena 75 minuti, condensa una riflessione poetica che si stratifica a più livelli, stilistici e strettamente narrativi. L’amicizia tra due uomini, la consapevolezza storica di uno di loro, il rito di sepoltura inerente a quella cultura… Lamento, documento, e asciuttezza di racconto. Quel che colpisce più di tutto è l’estrema capacità di sintesi espressiva. Al momento, il film più bello visto in concorso.