Venezia 67: tonfo clamoroso di Julian Schnabel con “Miral”, che svela tutta la limitatezza di una retorica espressiva superficiale e priva di profonda motivazione
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
03/09/10 – Julian Schnabel personalmente non ci ha mai persuasi più di tanto. Costantemente incensato nei maggiori festival del mondo, presenta alla 67. Mostra del cinema di Venezia il suo quarto film, Miral, e stavolta sbanda di brutto. Prima che sia notte fu accolto proprio a Venezia nel 2000 da una messe di premi, ma ci piacque davvero pochino. A conti fatti, solo Lo scafandro e la farfalla ha mostrato un autore che sposava con piena aderenza di senso una sperimentazione di linguaggio a una vicenda umana. La forma e il racconto, insomma, uno la giustificazione dell’altro. Semmai, è sempre stata piuttosto sospetta la scelta dei soggetti. Dal pittore maledetto Basquiat al poeta cubano omosessuale perseguitato dal regime e morto di Aids Reynaldo Arenas, al giornalista Jean-Dominique Bauby ridotto allo stato vegetativo che può esprimersi solo con gli occhi: storie estreme, sempre opzionate non sull’onda di una profonda motivazione e adesione emotiva, ma piuttosto per gusto eccentrico e da rotocalco. E che assai raramente, nella rilettura di Schnabel, riescono a coinvolgere. Cronaca priva di cuore, sia pure corredata da una florida girandola di furberie visive.
Con Miral Schnabel tenta di alzare il tiro, e affronta di petto, tramite un romanzo autobiografico della sua compagna Rula Jebreal, nientepopodimenoché la questione palestinese. L’intento è nobile, soprattutto perché Schnabel ha l’ambizione di mettere un punto, di ricostruire, tramite varie storie di donne, sessant’anni di storia e conflitti in tutte le sue svolte, speranze, delusioni e sconfitte. All’ambizione Schnabel affianca un certo coraggio puramente ideologico, poiché si allinea senza alcun tentennamento agli arabo-palestinesi, raccontando una simile tragedia storica tutta dagli occhi di chi si è visto confinare, perseguitare, incarcerare, e demolire le proprie case in un crescendo di delirante follia istituzionale. Sul coraggio di una scelta a monte, lontana dalle logiche di una facile imparzialità, c’è solo di che essere ammirati. Dove sbaglia Schnabel, allora? Sbaglia terribilmente nella faciloneria storica, nel goffo tentativo di comprimere una questione così complessa in meno di due ore film, nel non risparmiarsi la minima insistenza o didascalismo. Sbaglia, soprattutto, nel delineare personaggi che parlano col senno di poi e che raccontano la “storia della Palestina” un po’ alla volta, passandosi il filo del racconto da una bocca all’altra. Mai veri personaggi, ma figurine che recitano, un brano per ciascuno a rotazione, un Bignami di Storia del Novecento Medio-Orientale. Tragicamente fallimentare è soprattutto la seconda parte, in cui il personaggio di Miral diviene centrale e riassume con insostenibili approssimazioni tutte le svolte degli anni ’80, fino agli accordi di Oslo, mai rispettati, del 1993.
E pure la forma, stavolta, è inutilmente preziosistica. Tra docu-drama e fotografia tirata a lucido da spottone d’autore, tra macchina a mano e zoom gratuiti, alla prova del dramma civile Schnabel mostra finalmente se stesso e tutti i suoi limiti. Non dispone di una poetica, ma solo di una (facile) estetica.