Venezia, 9° giorno

10/09/10 - Mentre il Festival volge verso la sua conclusione, e la mole di film visionati si fa più cospicua...

Diario da Venezia – giorno 9

(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)

10/09/10 – Mentre il Festival volge verso la sua conclusione, e la mole di film visionati si fa più cospicua, iniziamo ad individuare dei tracciati tematici ricorrenti, che fanno di questa selezione una cartina tornasole delle ansie creative che agitano gli autori contemporanei. Alla base di molte pellicole viste qui alla 67. Mostra del cinema di Venezia, c’è senz’altro l’urgenza di una riflessione sulla morte, sulla dissezione del corpo, sul peso effimero della bellezza. Ce ne ha parlato Promises Written In Water di Vincent Gallo, con il suo stile indie gustosamente autoironico, ma anche il sorprendente Silent Souls di Aleksei Fedorchenko, che mira ad assegnare al lutto significati nuovi, a partire da antiche tradizioni. Mentre, come avevamo accennato qualche giorno fa, il cileno Post Mortem di Pablo Larrain si adopra nell’autopsia di un’intera Nazione.

A questo elenco possiamo aggiungere oggi altri titoli, assai distanti tra loro sia geograficamente che cinematograficamente parlando Venus Noire di Abdellatif Kechiche racconta la storia vera di Saartjie (Yahima Torrès), donna ottentotta esportata dalla nativa Africa nel Vecchio Continente all’inizio dell’800 e trasformata in attrazione dapprima da freak show, poi da salotto nobiliare, infine da bordello. Rigorosissimo e volutamente antiempatico (a Kechiche non interessava certo fare soltanto un dramma in costume), Venus Noire segue le varie tappe della storia di Saartjie concentrandosi molto sul volto della donna: icastico, seducente e misterioso. L’autore, inoltre, pone in luce le drammatiche conseguenze del colonialismo utilizzando le forme di rappresentazione come metafora dello sfruttamento: dal teatro circense agli hapening da salotto, fino alle immagini reali del ritorno delle spoglie di Saartjie alla Nazione Sudafricana nel 2002. Il film stesso di Kechiche costituisce in ultima istanza un’ulteriore esibizione della “donna ottentotta”, dove ad essere analizzata, però, è l’attrice Yahima Torrès. Ma se le varie forme di rappresentazione oltre ad esibire il corpo di Saartjie ne rivelano anche i talenti (l’agilità nella danza, l’abilità nel canto e con il violino), lo stesso non si può dire che faccia la Scienza. Mentre osserviamo gli anatomisti della scuola di medicina francese elencare le misure del cranio, delle terga, del naso di Saartjie paragonandole a quelle delle scimmie, diviene presto chiaro che sono proprio gli studi anatomici a dissezionare senza pietà il corpo umiliando l’essere umano.
E sempre la Scienza sarà l’ultima cattiva padrona di Saartjie, almeno fino al recente ritorno dei suoi resti in Africa. Cerebrale, freddo e rigoroso, Venus Noire entra di prepotenza nella rosa dei premiabili, anche se ci manca un po’ quel calore umano con cui Kechiche affrontava i personaggi dei suoi film precedenti (La schivata e Cous Cous).

Come dicevamo però, le lezioni di anatomia oggi non finiscono qui e a colmare le nostre lacune in materia ci pensa Tsumetai nettaigyo (Cold Fish) di Sion Sono. Il film, preceduto dalla proiezione del corto John’s Gone di Josh & Ben Safdie, delizioso trance de vie newyorkese in stile ultra low-fi (pare girato con una vecchia Hi8), è la storia di un serial killer simpatico e logorroico. Maestro nel ripulire la scena del crimine dai cadaveri, il nostro chiacchierone farà a pezzi un bel po’ di gente, prima di trovare un degno sostituto. Autore già di culto per il pubblico festivaliero (indimenticabile l’esperienza visiva del precedente film, Love Exposure, visto a Berlino nel 2009), Sion Sono utilizza uno stile visivo vagamente pop (soprattutto l’incipit del film) e cosparge il suo film di una comicità caustica che rende sopportabili anche le scene più forti. Riflessione sull’uomo medio giapponese pavido e assai poco autoritario, Cold Fish, con le sue immagini al limite della sostenibilità, ci rammenta quanto l’essere umano, nella sua fisiologia, sia labile, smembrabile, riducibile a insignificante pulviscolo. Insomma con la sua alta e accuratissima macelleria, il regista va decisamente oltre la superficie per mostrarci cosa giace sotto la pelle.

Viene dalla Grecia ma sembra un film indipendente americano Attenberg di Athina Rachel Tsangari, presentato oggi in Concorso. Si parla ancora di morte e malattia, ma non turbatevi, si tratta di una pellicola delicato e tutto sommato gradevole, con buona pace dei temi trattati. È una Grecia cupa e pertanto inedita quella che ci mostra la regista e che fa da sfondo alla storia di Marina, una giovane operaia alle prese con due importanti momenti di passaggio: la malattia incurabile del padre e la propria iniziazione sessuale. Senza cedere mai a ricatti sentimentali, la regista mette in scena con cura dei dettagli una relazione assai prosaica tra padre e figlia: i due deliziosi compagni di giochi e di serate davanti alla Tv. Convincono meno quelle scenette che vedono saltellare in pose diverse Marina e l’amica Bella verso la macchina da presa: sorta di diversivi “frontali” e stranianti utili a farci prendere le distanze dal dramma in corso. Insomma, per quanto sia un prodotto derivativo da certo cinema indie, Attenberg è una pellicola sincera e sentita, oltre che un’occasione da non perdere per gettare uno sguardo nella cinematografia greca contemporanea, spesso trascurata dai Festival cinematografici.