Gli orrori della guerra in Libano in un`opera intensa e folgorante: “Lebanon” di Samuel Maoz dà una scossa vigorosa alla sezione concorso di Venezia, e mette una seria ipoteca sul palmarès
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
08/09/09 – Gli orrori della guerra ci sono stati raccontati innumerevoli volte al cinema, in buona parte dal cinema occidentale, che ne ha fatto un uso mirato agli scopi più diversi: dalla glorificazione alla denuncia, dalla propaganda all`esecrazione, con qualche difficoltà nel tenersi lontani dalle pastoie della retorica, pro o contro. Il tema è già passato pure sotto il lavacro della dissacrazione, da M.A.S.H. di Robert Altman in poi, creando a sua volta una retorica espressiva percorsa lungo tutte le traiettorie possibili. Poche volte, però, ci è stata raccontata la guerra dal di dentro, nella sua tragica quotidianità , nel suo farsi in tempo reale, nella scansione delle sue ore interminabili. Samuel Maoz ci ha provato, ed è pervenuto alla realizzazione di un`opera preziosa, emozionante, tecnicamente impeccabile e al tempo stesso innovativa. L`accoglienza alla proiezione stampa è stata entusiastica, e all`uscita dalla sala già si è iniziato a far pronostici (a ragion veduta) su possibili premi, anche in virtù della natura stessa del film, che parrebbe “chiamare” il premio. In parte ciò è vero; Lebanon può mettere tutti d`accordo, perchè coniuga lo spettacolo da grande pubblico con la tematica civile, senza cedere un solo metro al gusto corrente e adottando anzi un apparato tecnico alquanto sperimentale. In tal senso si configura come un film da palmarès, semprechè le scelte della giuria siano guidate da uno spirito “ecumenico” e non si orientino invece verso un cinema di esclusiva nicchia intellettuale (intellettualistica?).
Samuel Maoz è partito dalla propria esperienza personale di artigliere, e ha operato in primo luogo una scelta forte in ambito di sceneggiatura: chiudere tutta la narrazione entro i claustrofobici confini di un carro armato al suo primo giorno di guerra, guidato da un quartetto di giovanissimi soldati sbalzati nell`orrore da un momento all`altro. L`autore sfrutta l`angusto spazio narrativo in varie direzioni: da un lato intesse una sorta di dramma psicologico, di conflitto di coscienze tra i soldati, allucinati dalla loro prima esperienza bellica (ed è forse il versante più debole del film, più convenzionale e prevedibile), dall`altro giostra con grande ispirazione gli spazi narrativi, tra dentro e fuori il carro armato, giungendo a climax d`angoscia di estrema efficacia e verosimiglianza. In più, gioca anche sul piano metalinguistico, riservando buona parte delle riprese a una “soggettiva del carro armato”. Seguiamo, infatti, le varie azioni belliche tramite il prisma del mirino, attraverso il quale l`artigliere Shmulik (alter ego del regista) individua ed elimina i nemici, tra enormi travagli di coscienza. A tale pathos narrativo concorre in modo decisivo la preziosa accuratezza dei contributi tecnici, a partire dal montaggio di un realismo agghiacciante, che manda tranquillamente in pensione il soldato Ryan di Steven Spielberg. E pure i personaggi, che talvolta nei loro conflitti ripercorrono in modo schematico le convenzioni di genere, mantengono comunque un buon margine di verità (memorabile la sequenza della rasatura della barba), assumendo i tratti di profili umani universali in tempo di guerra. Il pregio maggiore, in ultima analisi, si rivela la solida compattezza del progetto filmico, quando cioè le scelte di soggetto e sceneggiatura trovano una funzionale ed essenziale messinscena, che valorizza ed esalta le qualità di tali scelte.
Maoz, insomma, è papabile per il palmarès. Unico punto che può giocargli a sfavore: esser arrivato dopo Valzer con Bashir, e a breve distanza di tempo. Peraltro, Samuel Maoz pare condividere con Ari Folman una comune fonte d`ispirazione: un profondo senso di colpa, da parte israeliana, riguardo alla guerra in Libano, che dopo quasi trent`anni inizia a essere elaborato nelle coscienze, creative e non, di tutto un paese. C`è chi ha definito il conflitto in Libano “il Vietnam degli Israeliani”, e con qualche ragione. Il processo di elaborazione da parte degli americani riguardo al Vietnam è stato lungo e tormentato, e si è riversato in ogni forma d`arte, cinema compreso, che ha sfornato decine e decine di opere sul tema. Se Israele è giunto ora alla stessa fase di riflessione storica, è lecito aspettarsi da loro una messe di film su tale tematica. E magari sarebbe ancor più apprezzabile vederne anche scritti e girati da autori libanesi.