Diari da Venezia – giorno 6
(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)
07/09/10 – Giunti al sesto giorno del Festival possiamo sciogliere le riserve e annunciare che quello della 67. Mostra del Cinema di Venezia è un Concorso di tutto rispetto. La competizione si sta facendo infatti sempre più agguerrita e alla rosa dei nostri ipotetici vincitori possiamo oggi aggiungere nuovi titoli.
Cominciamo da cileno Post Mortem di Pablo Larrain, regista già noto dalle nostre parti per il suo film precedente, quel Tony Manero che, dopo aver vinto il Torino Film Festival nel 2008, si era guadagnato anche una, seppur modesta, uscita nelle sale. Autopsia di una nazione (il Cile), all’indomani del colpo di stato che ha dato inizio alla lunga ed efferata dittatura di Pinochet, Post Mortem picchia duro allo stomaco e riesce ad esprimere, attraverso la microstoria di frustrazione e rabbia del protagonista, tutto il senso di sconfitta di un’intera Nazione. Dopo gli interni asfittici di Larrain, Essential Killing di Jerzy Skolimowski ci ha trascinato invece in vasti paesaggi: prima quelli desertici dell’Afghanistan, poi quelli innevati della Polonia. Il perché di questo cambio di paesaggio è presto detto: Essential Killing racconta per immagini la storia di un sospetto talebano (interpretato da Vincent Gallo) che viene catturato in Afghanistan dalle truppe USA e trasportato verso un centro di detenzione Top Secret. In seguito ad un incidente stradale, il camion con i prigionieri si rovescia e Mohammed, questo il nome del protagonista, si dà alla macchia. Praticamente muto, se si eccettuano pochi minuti iniziali, Essential Killing è una caccia all’uomo dai tempi ieratici, ma dalla violenza esplicita e cruda e con un eccezionale Vincent Gallo. Il plot è da action dunque, ma il film segue il ritmo del suo personaggio, accompagnandolo nella sua lotta, talvolta efferata, per la sopravvivenza.
Non lo definiamo rarefatto invece, ma più brutalmente “lento” il film catalano Caracremada di Lluìs Galter, storia di un anarchico antifranchista dal volto bruciato. Nonostante l’argomento trattato, il film, presentato nella sezione Orizzonti, non riesce a trasmettere quello stato di continua tensione e di attesa che caratterizza la quotidianità di un guerrigliero rifugiato nei boschi. Quelli del protagonista sono soltanto gesti ripetuti fino allo sfinimento, che non arrivano mai a costituirsi come parti di un crescendo. La fotografia poi, osa davvero un po’ troppo, proponendoci delle immagini talmente buie da risultare un ammasso melmoso di nero e di verde scuro…misteri dell’emulsione. Si cambia del tutto registro con Di Renjie zhi Tongtian diguo (Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame), che segna il ritorno al wuxia pian, dopo la fallimentare esperienza di Missing (thriller con fantasmi subacquei e teste smarrite tra i flutti presentato al Festival di Roma), del maestro hongkonghese Tsui Hark. La storia è quella del detective Dee (Andy Lau) richiamato a corte dopo l’esilio, per scovare i cospiratori che vogliono impedire l’incoronazione della prima imperatrice donna della Cina. Scarabei incendiari, uomini mascherati, esseri mutanti, una storia d’amore, intrighi di corte e le splendide coreografie dei combattimenti rispolverano quel magniloquente intrattenimento made in Hong Kong che ci piacerebbe vedere più spesso dalle nostre parti.
Si torna a disquisire sul confine tra realtà e finzione, dopo l’ottimo Guest di Guerìn, nel documentario di Gianfranco Rosi El sicario (Room 164). Il regista, che aveva esordito proprio qui a Venezia con Below Sea Level (2008), ci presenta senza filtri il monologo fluviale di un vero narcotrafficante, scovato grazie ad un’intervista pubblicata su Harper’s Bazaar. Il criminale ritratto si rivolge direttamente a noi dalla stanza di un motel (la numero 164) che è stato il teatro di uno dei suoi crimini. Metodi di rapimento e di tortura ci vengono snocciolati senza posa, mentre l’uomo, completamente incappucciato, schematizza i segreti del “mestiere” su un blocco per disegni. Giunto alla fine della storia, però, il racconto subisce una svolta che nonostante ci venga presentata come reale, assume uno statuto del tutto romanzesco e inverosimile. Ma che il personaggio sia un vero criminale o un folle mitomane di fatto non cambia lo status di documentaristico del lavoro di Rosi. Tutto sommato potrebbe essere il fedele ritratto di un mistificatore.