Diario da Venezia – giorno 4
(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)
05/09/10 – Vi sembrerà che bruciamo un po’ le tappe, e forse avete ragione, infondo siamo soltanto al quarto giorno della 67. Mostra del Cinema di Venezia, ma l’impressione è che abbiamo visto il nostro ipotetico “Leone d’Oro”. Non siamo in grado di leggere nelle menti dei giurati, e sulla carta questo non è certo un film nelle corde di Tarantino, ma Ovsyanki (Silent Souls) di Aleksei Fedorchenko è un piccolo capolavoro di scarna poesia, un saggio di antropologia contemporanea e una grande storia d’amore. È la storia di Miron (Yuriy Tsurilo) che, rimasto improvvisamente vedovo, chiede all’amico Aist (Igor Sergeyev) di aiutarlo a seppellire la moglie secondo i rituali della loro etnia di appartenenza, quella dei merja. I due intraprenderanno un viaggio verso i luoghi della luna di miele della coppia, una sorta di lungo addio denso di memorie e governato da antiche tradizioni. Ad accompagnare i due protagonisti poi, ci sono due presenze d’eccezione, una coppia di zigoli, sorta di passeracei nota per la sua insignificanza. Creature scialbe erranti dunque, gli ultimi esemplari di una specie che sa di essere solo di passaggio.
Altro picco della giornata odierna è Guest di José Louis Guerìn, autore catalano che avevamo avuto il piacere di scoprire proprio qui al Lido nel 2007 grazie all’ammaliante En la ciudad de Sylvia (In the City of Silvia). Come nel film precedente, anche Guest, che è stato presentato nella sezione Orizzonti, affronta un discorso visivo e teorico sul “ritratto”, sorta di spartiacque, secondo l’autore, tra realtà e finzione. Guest è il resoconto di più di un anno di viaggi compiuti dall’autore per presentare il proprio film (En la Ciutad de Sylvia) nei festival internazionali di tutto il mondo. In ognuna di queste occasioni, Guerìn abbandona i luoghi-non luoghi festivalieri per immergersi nella realtà urbana circostante. Come un etologo armato di telecamera (il film è girato in digitale e con uno splendido bianco e nero) Guerìn viaggia nei volti e nelle storie delle persone che incontra, e si ritrova faccia a faccia con la miseria (specie nei paesi del Sudamerica), l’impegno politico, la religiosità più o meno urlata e cantata. Riecheggia più volte nel corso del film la fatale questione: “qual’è il confine che separa il documentario dalla finzione?”. Ma alla fine del viaggio diviene chiaro che la domanda non ha più alcun senso e che è impossibile separare la poesia dalla realtà.
Veniamo ora alle celebrazioni ufficiali. Venezia 2010 ha assegnato oggi il Leone d’Oro alla Carriera ad uno dei metteur en scene più abili e strabilianti del nostro tempo: l’hongkonghese John Woo. Puntualmente riconoscibile per via delle sue sequenze d’azione al rallenty con corredo di colombe svolazzanti, John Woo è noto ai più per i suoi film hollywoodiani (citiamo, tra gli altri Face Off, Mission Impossibile II e il sottovalutato Windtalkers), ma proprio a partire dai suoi successi negli Usa, molti spettatori ne hanno poi riscoperto i capolavori precedenti. Titoli come The Killer o A Better Tomorrow non sono più da considerarsi come prodotti di nicchia, bensì come dei classici senza tempo da studiare ed analizzare per via della pregiata fattura, ma anche tutti da godere per il puro piacere visivo che emanano. Nei suoi capolavori degli anni 80 John Woo rileggeva senz’altro molto cinema statunitense della decade precedente e il viaggio ad Hollywood è stata a sua volta l’occasione per svecchiare un cinema oramai troppo cedevole al gusto pacchiano del bloockbuster seriale e senza nerbo. Insomma, John Woo è stato un innovatore in patria e fuori e il film che ha portato oggi a Venezia per l’occasione è la conferma che anche sotto il regime cinese si possono concepire pellicole che non sono un peana alla grande nazione (il riferimento è al deludente film di Andrew Lau, visto al Lido il primo giorno). Jianyu (Reign of Assassins) codiretto da Woo insieme a Su-Chao Pin è un wuxia pian dal ritmo narrativo fluido e ben controllato, denso di ironia (strepitosa la scoperta del casus belli!) e naturalmente di scene d’azione perfettamente coreografate. Dopo il successo a sopresa di Red Cliff, film che pareva destinato a non essere distribuito in Italia, ci auguriamo che anche questo e i successivi lavori di Woo trovino posto nelle sale nostrana. Insomma, speriamo che questo Leone d’Oro alla Carriera funga da riflettore gettato su una cinematografia che ha ancora molto da dire.
Chiudiamo la carrellata odierna con il coraggiosissimo I Malavoglia di Pasquale Scimeca, trasposizione contemporanea del celebre romanzo di Verga, presentato oggi nella sezione Orizzonti. Girato con grande mestiere e con una ricercatezza formale mai troppo esibita, il film di Scimeca riesce a raggiungere, per la maggior parte della sua durata, un encomiabile equilibrio tra il passato e il presente, tra la fedeltà al romanzo (le tappe fondamentali della storia ci sono tutte) e un intento divulgativo-modernizzante mai banale. Peccato per il finale, che non vi anticipiamo, ma che rivela un’interpretazione dei desideri e dei gusti musicali giovanili alquanto calata dall’alto e dunque poco spontanea. Al contrario, le performance del cast sono estremamente naturali e Scimeca dirige con piglio sicuro giovani e meno giovani interpreti, spesso alle prime armi. Si auspica da anni, da più parti, un ritorno del cinema italiano a produzioni più sperimentali e meno omologate (meno commedie, insomma), I Malavoglia di Scimeca possono piacere o non piacere, ma vanno esattamente in questa direzione.