Venezia, 10° giorno

11/09/10 - Siamo reduci da una travolgente due giorni di abbuffata a base di Takashi Miike. Un’esperienza...

Diario da Venezia – giorno 10

(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)

11/09/10 – Siamo reduci da una travolgente due giorni di abbuffata a base di Takashi Miike. Un’esperienza vivamente consigliata per tutti, dai fans insaziabili del versatile e prolifico regista giapponese, ai digiuni in materia. In Jusan-nin no shikaku (13 Assassins), presentato in Concorso alla 67. Mostra del cinema di Venezia, Miike rispolvera il codice del samurai per proporci un film in costume classico e robusto, che tiene in serbo, fino all’ultima mezz’ora, quella violenza grafica e visionaria che è cifra stilistica dell’autore. Remake dell’omonimo film del 1963 di Eichi Kudo, Jusan-nin no shikaku (13 Assassins) ha un incipit agile e serrato, utile a predisporre un’adeguata presentazione del sadico signorotto del luogo e delle sue malefatte. Si prosegue poi con il reclutamento dei samurai più idonei a porre fine alla tirannia. Nonostante nella parte centrale si abbandoni a qualche verbosità di troppo (le lunghe dissertazioni utili a selezionare i 13 samurai), Jusan-nin no shikaku (13 Assassins) appaga poi in pieno lo spettatore con la strepitosa messinscena del lunghissimo combattimento finale: una carneficina creativa, ironica e intelligente, come solo Miike sa fare.

Ma come dicevamo la nostra esplorazione nella filmografia del regista non si arresta qui, due proiezioni di mezzanotte ci hanno infatti iniziato alla saga di Zebraman, supereroe senza poteri, ma dall’irresistibile costume zebrato. Protagonista di Zebraman (film del 2004) è uno scialbo maestro elementare che nasconde però nell’armadio il travestimento da supereroe. Quando gli alieni invadono la sua città, il nostro si lancia in una strenua lotta contro il verde e gelatinoso invasore inoltre, nel frattempo, riesce ad infondere sicurezza al più timido e problematico dei suoi piccoli allievi. Tutto ciò è condito da uno stile visionario, da abbondanti gag ispirate da una comicità immediata e iper-pop e dal geniale slogan che chiude ogni missione compiuta da Zebraman: “Nero su bianco”. Per Zebra City no gyakushu (Zebraman 2: Attack on Zebra City, 2010) ci trasferiamo invece nel futuro per scoprire che nel nome della zebra si è instaurata una vera e propria dittatura. Un ambiguo dittatore nerovestito governa infatti la città e intrattiene il proprio popolo propinandogli dosi quotidiane di videoclip dove sua figlia, accompagnata da uno stuolo di ballerine, sculetta e digrigna i denti in mise degne di Lady Gaga. Vi ricorda qualcosa? La società dello spettacolo televisivo di bassa lega è secondo Miike il nemico perfetto da abbattere per Zebraman, ma non sarà il solo. La dittatura ha infatti stabilito la “zebra hour”, un’ora del giorno in cui qualsiasi crimine può essere commesso e restare impunito. E, indovinate un po’? la zebra hour ha provocato un calo del crimine pari al 50%! In questo mondo futuribile dove tutto è o bianco o nero, solo il ritorno del “grigio” maestro delle elementari, può ristabilire l’ordine. Realizzato con maggior cura e sicuramente con un impegno produttivo più cospicuo rispetto al film precedente, Zebraman 2 è l’apoteosi della cultura pop made in Japan: ipercinetica, plasticosa e terribilmente divertente. Per incrementare il nostro spasso e predisporci al meglio alla proiezione, vi segnaliamo che l’autore si è presentato in sala travestito da zebra.

Da ricordare infine la presentazione dell’ultimo film italiano in Concorso: La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo. Horror bifamiliare dallo stile ipercromatico e gustosamente kitsch, il film, tratto dal bestseller di Paolo Giordano, si ispira alle atmosfere dei migliori film di Dario Argento e si serve abilmente delle musiche composte da Mike Patton. Sotto cotale vestito, però, c’è il proverbiale niente. La storia dei traumi infantili dei due protagonisti (interpretati da Alba Rohrwacher e Luca Marinelli) non è certo sufficiente a farcire due ore di film. Ci è parsa poi assai fuori luogo la citazione del finale de L’avventura di Antonioni. Spesso dal kitsch si scade in un rovinoso trash.