Per ogni cinematografia che si rispetti, il racconto del mondo scolastico è un argomento indispensabile da affrontare, un indizio capace di auscultare lo stato di salute di una società. Il cinema francese, in particolare, ha una tradizione solidissima, invidiata e imitata, perlomeno a partire da Zero in condotta di Jean Vigo (1933) fino ad arrivare a La classe – Entre les murs (2008) di Laurent Cantet. Raccontando con Vado a scuola la tenacia di un gruppo di bambini sparsi per il mondo che devono percorrere un lunghissimo tragitto per raggiungere le rispettive aule scolastiche, il francese Pascal Plisson si inserisce in questa tradizione, privandola però della problematicità che da sempre contraddistingue il tema. I bambini di Plisson – il kenyota Jackson, la marocchina Zahira, l’indiano Samuel e l’argentino Carlito – infatti non vengono mai scossi dal dubbio rispetto alla necessità di arrivare per tempo a scuola e sono capaci a tal scopo di superare ostacoli quasi insormontabili, come un gruppo di minacciosi elefanti da affrontare sul cammino o il trascinare per chilometri il fratello maggiore immobilizzato su una sedia a rotelle (sedia che poi, ad un certo punto, addirittura si rompe…). Prima ancora che il rapporto con i compagni e con gli insegnanti (descritto, con pochi tratti e irrealisticamente, come idilliaco), ciò che dunque fa problema in Vado a scuola – attraverso il viaggio massacrante di questi bambini – è l’anelito insopprimibile alla conoscenza, all’educazione, cosa tutt’altro che scontata in certe società (ma forse avremmo gradito un riferimento anche alle nostre di società, quelle occidentali, in cui perlomeno fino agli ’50 le difficoltà di spostamento per i bambini non erano troppo diverse).
Quindi, anche se non possiamo che essere d’accordo con la buona volontà di Plisson e dei suoi bambini, quel che si sente in Vado a scuola è il fastidioso sentore di un esotismo, di uno sguardo esterno al problema, che si ravvisa sia nella esagerata cura della messa in scena (non mancano persino dei dolly) sia nella sin troppo sottolineata bontà di ogni personaggio, dagli stessi protagonisti ai loro familiari. In effetti, il film di Plisson non si può tecnicamente definire come documentario proprio perché tutto è scritto e ricostruito, venendo perciò a mancare la spontaneità di gesti e dialoghi così come la gestione dell’imprevisto (che, se incorso durante le riprese, come ad esempio la ruota della sedia a rotelle che si rompe, viene poi accuratamente “rimesso in scena”).
Ne consegue che Vado a scuola dà l’idea di essere piuttosto una favola edificante, improntata ai buoni sentimenti, intrisa di positivismo e di – se vogliamo – ingenua fiducia nel futuro. Allo stesso tempo però appare difficile stroncare in toto l’operazione, soprattutto per la verità che emerge tra le righe del comportamento dei bambini, dallo strano santino – sorta di protettore del viandante – cui ogni giorno Carlito lascia un portafortuna, ai fugaci e involontari sguardi in macchina di alcuni di loro, alla visibile e reale sofferenza dell’indiano Samuel, costretto all’immobilità e a un dolore costante che non viene mai spiattellato in modo palese ma, anzi, appare celato quasi pudicamente (e lo si riconosce da alcuni fugaci primi piani quando questi si trova involontariamente sballottato dai fratelli).
Soprattutto incidono nel giudizio complessivo le dichiarazioni finali dei ragazzi, in cui ciascuno di loro mostra il desiderio di contribuire alla crescita della società di appartenenza, sia sognando di fare il medico che l’insegnante. Insomma, forse per 74 minuti (questa la durata di Vado a scuola, si può decidere di lasciare momentaneamente alle spalle il pessimismo della ragione e sperare per una buona volta nell’ottimismo della volontà.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi