Uomini di parola

Fisher Stevens porta sul grande schermo tre vecchie glorie di Hollywood del calibro di Pacino, Walken e Arkin per un noir senile, anche nei difetti.

Al cinema e nell’arte, la somma non fa il totale, l’unione non fa necessariamente la forza. Così, mettere insieme 3 glorie di Hollywood non garantisce un film glorioso. Uomini di parola permette al regista Fisher Stevens di riunire una selva di premi Oscar, come Al Pacino, Christopher Walken e Alan Arkin, in un film che però ha il difetto di seguire la senilità e gli accenni arteriosclerotici dei suoi protagonisti.
Val esce dal carcere dopo aver scontato una pena di 28 anni per essersi rifiutato di abbandonare uno dei suoi capi criminali. Il suo miglior amico Doc lo attende fuori dal carcere e i due riuniscono la gang con il loro vecchio compagno Hirsch. Ma uno dei tre nasconde un pericoloso segreto: si trova davanti ad una situazione senza via d’uscita, impostagli da un vecchio boss della mafia, e il suo tempo per trovare una valida alternativa sta per scadere. Scritto dal drammaturgo Noah Haidle, Uomini di parola è un noir mafioso misto alla commedia senile che racconta con toni di farsa elegiaca la vitalità che cerca di fuoriuscire da dietro la vecchiaia.

Nel meccanismo della gang che si riunisce e che non perde le cattive abitudini, Stevens mette in scena una fantasia senile con cui esorcizzare e rileggere la crisi della terza età, meno ridicola, più amara di quella della mezza età, tanto più toccante quanto più i protagonisti cercano di mostrare di esserci ancora, attraverso il crimine, il brivido della paura, il sesso. Ma anche tramite i valori della vecchia guardia, qualunque guardia, contro l’amoralità contemporanea. Stevens si diverte a mettere in fila tratti e temi imbarazzanti, senza pudore nei riguardi dei suoi personaggi, ma anche senza tatto, per poi ribaltarli in una sorta di saga nera che si svolge tutta in una notte. E la fusione non gli riesce granché.
Soprattutto perché lo stesso Stevens trova di rado la chiave giusta di racconto, il modo per rendere trascinante la sua rugosa epopea, gigioneggiando come fa di continuo Pacino, caracollando nel ritmo, seguendo senza finezza gli alti e bassi dei suoi protagonisti. E così Uomini di parola diviene uno dei rari casi in un film del genere in cui il pathos e i tocchi sentimentali (il rapporto tra Doc e la nipote) funzionano meglio del resto, anche meglio del finale sospeso che cita Butch Cassidy e Sundance Kid, grazie al disegno intimo di personaggi che vedono la morte vicina e si aggrappano disperatamente a chi li circonda. E in questo emerge la figura laterale ma bellissima di Arkin, il migliore del cast, quello più in sintonia con i lati migliori della pellicola e con la malinconia della canzone di Bon Jovi candidata ai Golden Globe. Al contrario del regista.

EMANUELE RAUCO