Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Dopo il corto di diploma Isosceles (2001) e Point of Return (2006), la regista russa Angelina Nikonova porta alle Giornate degli Autori Twilight Portrait, un film di denuncia forte sia nei confronti della società russa (sempre più corrotta secondo la regista), sia nei confronti dell’indifferenza umana tipica della società contemporanea. Uno tra i film più intensi, interessanti e complessi visti finora in questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia; una pellicola che ha diviso la sala, purtroppo poco affollata, vista la concomitanza con A Dangerous Method di David Cronenberg.
Per quasi due ore tutta la vicenda si snoda rimanendo fortemente legata alla scena iniziale: la protagonista Marina, assistente sociale che si occupa dei problemi famigliari di diversi adolescenti, viene svegliata da un urlo di dolore. Non scoprirà mai che si trattava della richiesta d’aiuto di una ragazza stuprata nelle campagne circostanti. Quell’urlo però le rimarrà dentro inconsciamente e sarà l’inizio della sua ricerca spirituale profondamente partecipata e dolente, calata in una realtà dove sono le istituzioni (in questo caso i poliziotti) a compiere gesti di violenza efferata e dove nessuno è pronto a occuparsi del prossimo. Marina verrà a sua volta stuprata solo perché si troverà in mezzo a una strada a causa di un tacco rotto (metafora del suo stato d’animo, sin dall’inizio profondamente inquieto, perchè imprigionato in un’esistenza guidata dalle convenzioni e dalle ipocrisie borghesi) e la proprietaria di un ristorante sarà pronta a ‘venderle’ salsicce e birra, ma non cose semplici come l’acqua e la possibilità di chiamare un taxi. L’indifferenza del mondo porterà perciò la stessa Marina a ‘urlare’. La giovane donna della classe media russa vuole conoscere la verità e, proseguendo nella sua ricerca, sarà disposta ad affrontare il male che la ‘rapirà’: dopo lo stupro infatti, tornerà ogni giorno al ristorante cercando di rivivere ossessivamente la giornata della violenza subita, in preparazione di una vendetta che, però, finirà per non compiere. Il suo intento vendicativo infatti verrà sostituito da un gesto di piacere, se non addirittura d’amore, che spiazza completamente perché si palesa all’improvviso spezzando la narrazione lineare degli eventi. Da qui parte un film potente, le cui tracce riescono a rimandare persino a un qualcosa che si cela oltre il visibile.
Girato con semplicità e naturalezza e fotografato in uno spazio spoglio e desolante da luci il più possibile naturali e mai invadenti, Twilight Portrait è, in realtà, un film complesso in cui la macchina da presa si muove con movimenti studiati per oscillare, tra allontanamenti e avvicinamenti, all’interno dell’animo di Marina; mentre i campi medi giocano la stessa affascinante e ambivalente funzione nei confronti del paesaggio circostante. Diversi anche i piani sequenza utilizzati proprio a tale scopo riuscendo, come scriveva Tarkoskij, a “creare una riflessione sull’equilibrio tra dissoluzione della forma e sua modellatura”. A tale scopo ricordiamo la scena finale dove la donna, camminando per una strada simile a quella che ha dato inizio alla sua tragedia, pur ancora presa dalla sua ricerca, non è più del tutto da sola.
Su tutto però prevale senza dubbio l’intensa interpretazione dell’attrice Olga Dihovichnaya (anche produttrice della pellicola) che, da quando il suo personaggio decide di indagare il male, sembra quasi fondersi e annullarsi nel grigio e desolante paesaggio urbano che la circonda, finendo per trasformarsi lei stessa nel simbolo di una società che, anche nel totale degrado, cerca l’amore, la verità e quindi la salvezza.