E tre. Dopo l’esordio – che già vedeva la partecipazione della compagna Gerini – con la commedia grottesca Nero bifamiliare (anno di grazia 2007) e l’approdo all’horror con l’apprezzato Shadow (2009), Federico Zampaglione seguita nella sua carriera di regista cinematografico con un thriller horror costruito intorno alla rievocazione nostalgica del cinema italiano degli anni Settanta.
La locandina di Tulpa ammicca forte e chiaro riecheggiando atmosfere e suggestioni scaturite dal kubrickiano Eyes Wide Shut: una maschera, l’allusione vaga a un club privé tanto esclusivo e misterioso quanto inquietante e pieno di pericoli. Il film invece con Kubrick e con il suo film non c’entra nulla e cerca invece, fin dalle prime immagini, di ricollegarsi a un filo(ne) tutto diverso. Da Argento in giù (ammesso che registi come Fulci siano da considerare inferiori al maestro dell’horror), Zampaglione – che non si contenta di scrivere e dirigere ma si mette anche fisicamente a manovrare la macchina finendo nei titoli di coda pure come operatore – insegue con nostalgia un cinema di cui è estimatore appassionato e che non c’è più da molto tempo ormai. Montato un budget da cinema indipendente, il musicista riesce a coinvolgere – oltre alla compagna Claudia Gerini – Michele Placido, Michela Cescon e Ivan Franek. Il plot è semplice: una donna in carriera di giorno fa i conti con lo stress e le ostilità di un’azienda investita in pieno dalla crisi economica, di notte si lascia andare a evoluzioni erotiche estreme e perverse in un club esclusivo nel quale al sesso si mescola un vago misticismo. Ovviamente qualcosa/qualcuno giunge a funestare questa anomala routine iniziando a uccidere uno dopo l’altro, in maniera crudele e truculenta, tutti i partner della donna.
Zampaglione dice di voler innovare ricominciando da dove il cinema di genere italiano ha smesso di essere grande (e forse ha smesso di essere del tutto). Quando però si tratta di citare gli elementi di questa presunta novità, si limita a menzionare lo sfondo storico (lo spettro, peraltro del tutto pleonastico, della crisi mondiale) e l’ambientazione (come se di club privé, night e altri locali “trasgressivi” in senso lato il cinema italiano non fosse già pieno tra i Settanta e gli Ottanta). Per il resto, lasciati da parte i sofismi dei cultori del genere, Tulpa perde su tutti i fronti: da una parte cercando di ricalcare, imitare e “citare” il vecchio, il confronto col quale tuttavia non regge neppure in un solo fotogramma, dall’altra non riuscendo in nessun modo a trovare la via a un aggiornamento più che utile indispensabile (la “truculenza che fa tendenza” resa qui con gusto retro, più che orrore e disgusto invita l’indifferenza o al massimo l’ironia). La storia non è sviluppata, il racconto manca di tensione, la scrittura e la regia sono rigidi, meccanici, più ingessati che raggelati, e gli interpreti raramente trovano il colore giusto (dispiace dover rilevare la performance incomprensibile di Michela Cescon e quella per lo meno stonata di Claudia Gerini). Musiche e fotografia sono forse le cose migliori in questo thriller horror – che al regista piace di più chiamare giallo – dalle grandi aspirazioni ma dalle idee piccole piccole.
SILVIO GRASSELLI