Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Abituati come siamo ad una serialità contemporanea dove la sessualità viene scandagliata attraverso ogni più piccola angolatura, spesso più dettagliata che al cinema, rendersi conto che nel 1977, quando la liberalizzazione sessuale era avvenuta da ormai una decina d’anni e il clima politico sui diritti sessuali era piuttosto caldo, negli Stati Uniti era ancora un tabù parlare dichiaratamente di omosessualità in televisione. Tanto che per farlo nell’orario primetime si dovette trovare un escamotage. Nasce così una delle sit-com più popolari del periodo: Tre cuori in affitto (in originale Three’s Company), andata in onda sulla ABC per otto stagioni dal 1977 al 1984 e rimasta nell’immaginario collettivo mondiale – tanto che recentemente è stata oggetto in Italia persino di una piece teatrale con Paolo Ruffini -, che lanciò le carriere del compianto John Ritter e di Suzanne Somers, in due ruoli che poi sono rimasti loro cuciti addosso, quello del bravo ragazzo e quello della biondona un po’ svampita. L’idea di partenza è piuttosto semplice: una fioraia e una segretaria hanno bisogno di trovare un’altra coinquilina per dividere le spese dell’affitto dell’appartamento che condividono perché quella precedente lo ha lasciato per sposarsi. Ma una mattina, dopo una festa, trovano un giovane che dorme nella loro vasca da bagno e con il quale fanno subito amicizia. Jack, questo il nome del ragazzo, studia da chef e sarebbe perfetto come coinquilino se non fosse per il fatto che è un maschio e il padrone di casa, un troglodita vecchio stampo, non gradisce che persone di sesso opposto non sposate condividano lo stesso tetto. Per ovviare al problemino, una delle due finge che Jack sia gay. Ovviamente da qui partiranno una serie costante di equivoci e battute a doppio senso sulla sessualità del ragazzo che si intrecceranno con le contraddizioni di un padrone di casa omofobo, ma palesemente impotente e con una moglie costantemente frustrata per le inadempienze coniugali di lui.
Una serie che allo sguardo odierno non può che apparire immensamente datata nel ritratto di un’omosessualità che potremmo definire “bozzettistica”, ricca di luoghi comuni che a tratti risultano ripetitivi, oggi anche ingenui e/o volgari. Ma a conti fatti, Tre cuori in affitto rivela volente o nolente la concezione dell’omosessualità all’interno della classe media occidentale in quegli anni, tanto da aggrapparsi anche ad altri cliché, sempre legati alla sfera della sessualità: pensiamo alla condizione femminile raffigurata in tutti i suoi stereotipi, dove la coinquilina bruna è intelligente mentre quella bionda è un’oca giuliva che ricalca seppur grossolanamente il classico di Billy Wilder Quando la moglie è in vacanza. Speculare poi in tal senso il doppiaggio italiano. Perché, se in inglese la serie tende anche solo a formulare un minimo di satira nei confronti dei pregiudizi e degli stereotipi formulati dal signor Roper e in fondo i dialoghi risultano sì datati, ma anche godibili, in italiano resta tutto fine a se stesso e impresso nel solco di una comicità meramente offensiva.
Tre cuori in affitto (ora ridistribuita in dvd dalla Dolmen) fu trasmessa in Italia solo nel 1984, su Rete 4, e fu massacrata al doppiaggio, in una traduzione che non c’entrava assolutamente nulla con l’originale – dove paradossalmente l’opera veniva affidata maggiormente alla mimica dei protagonisti – mentre nella versione linguistica nostrana venivano aggiunte battute fuori campo inesistenti in originale.