Ascolta le interviste di RADIOCINEMA ai protagonisti del film:
Terry Gilliam si concede alla pasta. Letteralmente. Perché il cineasta più visionario del cinema contemporaneo, erede del surrealismo, in particolare del Metropolis di Fritz Lang, nonchè di Fellini e Ferreri, omaggia Napoli e le sue contraddizioni (l’antico valore culturale da un lato e la spazzatura dall’altro) con un cortometraggio di venti minuti prodotto dal noto marchio di pasta italiana, Garofalo, che già aveva prodotto il corto Armandino e il Madre, debutto dietro la cinepresa di Valeria Golino. Una coppia di americani e il loro figlio vagano fra le strade di una Napoli sporca e sudicia, ma anche fatta di vicoli magici e tradizioni secolari, come il mito di Pulcinella e i pastori del Presepio. Il bambino della coppia incuriosito da quel mondo diverso, che per la prima volta si appresta a conoscere, si perde brevemente nei vicoli con grande disappunto dell’ansiosa madre. La notte sogna, in una mescolanza di incubi e deliri, di essersi perso …
Non manca l’impronta del maestro americano, naturalizzato inglese, una delle “voci” più forti dei mitici Monty Python, in questo The Wholly Family dove si respira l’atmosfera di un cinema surreale, fatto di sogni e atmosfere cupe e piene di remore. L’infanzia – un tema sempre attivo all’interno della poetica di Gilliam come lo si può ben vedere da pellicole notevoli come Le avventure del barone di Munchausen e Tideland – sebbene in maniera meno drammatica dei suoi lungometraggi, è ancora una volta il punto di vista con il quale guardare il mondo degli adulti, che attraverso la visione onirica del piccolo protagonista è una “potenza” che fa paura e con la quale bisogna fare i conti. Qui però la visione priva di speranze alla fine si rivela patrocinio di una tradizione di affetti conservatori e di una cultura popolare, che forse più che essere realistica è ormai diventata l’ombra di un cliché. Anche dallo sguardo di un uomo che ha realizzato una pietra miliare, un capolavoro assoluto e visionario come Brazil. Intriso di idee e spunti legati alla mediterraneità partenopea, The Wholly Family palesa una forte pecca, ovvero la consapevolezza che il film nasce e si sviluppa prima dalla casualità e dalla possibilità di una scelta di location (Guglia di San Gennaro, Ospedale delle bambole, Succorpo Vanvitelliano, etc.) e poi dalla costruzione di un’idea narrativa, di base interessate, che però si rivela approssimativa nella sua costruzione. La sceneggiatura è quasi inesistente, dovuta al caso e all’improvvisazione. L’aspetto onirico nella sua visualità è ovviamente curato e intriso di significati semantici, dovuti al genio istintuale di Gilliam e non alla sua voglia di applicarsi, ed è impreziosito dagli splendidi colori caldi della fotografia del grande Nicola Pecorini, che con la sua meravigliosa luce è forse colui che contribuisce a dare un valore aggiunto all’opera. La pellicola, però, alla fine è più un filmare di luoghi (comuni), di caratteristiche geografiche, alimentari (gli spaghetti con pomodoro e basilico), di visioni non meglio precisate e confezionate a livello sonoro da una musica, curata da Daniele Sepe, che sottolinea la località di un’operazione ibrida dove non mancano errori tecnici grossolani, che dimostrano la frettolosa impronta di un’operazione tutta italiana.