Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Se una serie tv è nota per lo spazio dilatato con la quale si sussegue nel tempo di episodio in episodio apriamo questa quarta stagione di Flussi seriali raccontandovi di uno special televisivo della durata ristretta di soli cinquanta minuti, un tempo che non appartiene né al lungometraggio né tantomeno al cortometraggio. Il formato del medio-metraggio in questo caso viene messo a disposizione di The Song of Lunch, la messa in scena di un poema in versi del poeta Christopher Reid, che racconta l’incontro fra uno scrittore fallito e la sua ex-compagna, ora moglie di un importante scrittore internazionale e madre felice, in un ristorante italiano di Soho a Londra, dove i due erano soliti andare prima della loro rottura avvenuta quindici anni prima. Così se quel ristorante non è più come i protagonisti lo ricordavano, ora divenuto un posto elegante e anonimo e non più rozzo e caratteristico, anche le loro vite sono cambiate, complice l’ineluttabilità del tempo. Questo piccolo film per la televisione – realizzato dalla BBC in collaborazione con la PBS, dove è stato trasmesso lo scorso autunno – insieme al film di David Hare Page Eight – nell’antologia di Masterpiece Contemporary – racconta l’incontro di quest’uomo e di questa donna nella durata esatta di un pranzo e si avvale delle parole del poeta inglese per raccontare i tormenti dell’uomo, che funge anche da io narrante.
I protagonisti non hanno un nome, anonimi e pertanto universali, e si muovono sulla scena o meglio restano seduti l’uno di fronte all’altra con la voce fuori campo dell’uomo che scruta con occhio freddo, quasi estraneo, quelle due vite che un tempo erano inseparabili, analizza i pensieri e i sentimenti di entrambi nell’arco di quel breve momento, che a conti fatti rivela quanto possa essere crudele l’incontro di due amanti perduti. Sentimenti di nostalgia e malinconia lasciano posto solo a un amaro senso di sconfitta e di perdita. E l’incontro ricorda a lui tutto quello che con lei sarebbe potuto diventare. Il senso d’inferiorità di fronte a quel che è divenuta ora la compagna di un tempo poi lo distrugge. E il dolore affondato nell’alcool determina ancora di più la sua sconfitta agli occhi alteri di lei. Ma d’altro canto, lei non è più come lui se la ricordava.
La messa in scena – elegante e sobria – del giovane Niall McCormick, promettente filmaker, acutizza la già sotterranea implosione del dramma, che si consuma in tutta la forma del suo non apparire, del suo prendere forma attraverso un sopracciglio, una parola, un movimento del corpo dell’uomo e della donna. Inutile dire della grande prova dei due protagonisti: Alan Rickman utilizza il tempo con grande parsimonia; Emma Thompson con un paio di sguardi, senza quasi proferire parola, costruisce un personaggio intero ricco di sfaccettature: la donna che è andata avanti e ha costruito la sua vita, un tantinello snob, distaccata da quell’incontro, a scapito così del già miserrimo ego del povero lui, lei che con la sua sola presenza sottolinea a lui il suo essere rimasto nella coltre della sua mediocrità, nella quale si è cullato. Ciò dimostra che la classe della recitazione spesso si manifesta attraverso la forma dell’impercettibile. Un racconto asciutto e poetico al tempo stesso, che comprime in quel tempo limitato della sua durata la malinconia dell’esistenza, i rimpianti, le delusioni, i tradimenti, il tempo che passa, la vita. Per andare avanti e rendersi conto che i ricordi si allontanano dalla realtà per diventare mito.