Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Può essere molto rischioso decidere di realizzare il rifacimento di un cult, specialmente se ancora pienamente inserito nell’immaginario collettivo come lo è The Prisoner (in Italia Il prigioniero), serie del 1967, ideata da Patrick McGoohan (volto memorabile della tv, che più di una volta ha fatto grattare il lobo occipitale del Tenente Colombo), che ne era anche l’interprete, che giocava in chiave fantapolitica con le ossessioni culturali e storiche dal tempo: la Guerra Fredda sullo sfondo frizzante della Swinging London. Ma l’operazione compiuta nel suo remake del 2009, oltre 40 anni dopo, non cerca di imitare pedissequamente il suo potente antenato, ma di rielaborarne gli elementi essenziali secondo le linee di regia e di scrittura odierne spostando l’ambientazione da uno sfondo così riconoscibile come la Londra della contestazione ad un villaggio surreale dove le persone hanno perso la loro identità e vengono classificate con dei numeri. Quello è il loro nome e paiono tutti felici di averlo. Non sanno che il mondo è fatto di tante realtà, credono che esista solo Il Villaggio. Quando però lì arriva 6, che ricorda la sua vita a New York – come impiegato in una misteriosa società di spionaggio di nome Summaker – e il suo vecchio nome (Michael), tutta quell’armonia, nella piccola comunità, è destinata a venire meno. Ma 2, l’onnipresente capo del villaggio, farà di tutto per contrastare 6 nel suo voler rientrare nel mondo reale coinvolgendo gli altri cittadini.
Bill Gallagher, lo sceneggiatore, e Nick Hurran, il regista, utilizzano la vecchia serie di McGoohan solo come canovaccio per raccontare le ossessioni contemporanee, partendo in primis dalle Torri Gemelle, immagini fantasma che riecheggiano nella mente del protagonista come un cicaleccio mnemonico che ha acutizzato le nevrosi e le confusioni umane. Il lutto collettivo per eccellenza, che nel nostro mondo contemporaneo che acquisisce una funzione privata (!) pone la nuova versione della serie in diretta antitesi con l’originale, dove invece si faceva riferimento esplicito all’identità di massa. Era il 1967, le manifestazioni, i sit-in, il gruppo facevano la differenza, mentre una diaspora di affetti e il distacco fra gli uomini hanno portato a nuovi stili di vita e concezioni che sembrano aver ampiamente rinnegato quanto conquistato in quegli anni. Vengono così messe da parte le superate ossessioni per la Guerra Fredda e il controllo del Grande Fratello (quest’ultima ormai ci siamo rassegnati a viverla giorno per giorno essendo “super mappati” in qualsiasi azione) per entrare invece in un discorso molto più psicoanalitico e introspettivo dove gli esseri umani sono sempre più vittime della loro solitudine, che riecheggia nei temi della passione e della famiglia, dove i figli si amano male e si distruggono. Pertanto, tutto questo traspare dal nuovo lavoro seriale, che indipendentemente dalle differenze risulta già un prodotto anomalo a sé, a tratti bizzarro, per quanto poi ricco di riferimenti alla cultura pop, dalle opere letterarie di José Saramago e Ray Bradbury alla serialità di X-Files e Lost. Ma nel concept di questo remake il modello è stato probabilmente quello del rifacimento di Battlestar Galactica: prendere un cult di genere e farne un ritratto psicanalitico del nostro mondo. In quel caso la copia era decisamente più interessante dell’originale. Forse per The Prisoner non si arriva a tanto, ma bisogna perlomeno prendere atto delle sue interessanti anomalie di fattura. Così, questa miniserie (appena editata in dvd in Italia da Koch Media in un cofanetto ricco di making of, dietro le quinte e scene tagliate) si rivela un qualcosa di totalmente autonomo dal suo omonimo. Persino più originale nella messa in scena e nella costruzione dei personaggi (di cui l’emblema immaginifico resta l’elegante prova di un mostro della recitazione come Ian McKellen che, nei panni di 2, influenza positivamente anche tutto il resto del cast, Jim Caviezel compreso), anche se poi perde mordente nel dipanamento narrativo che si rivela troppo lento e criptico e troppo slegato fra un episodio e l’altro. La lettura sociologica di questo prodotto, suddiviso in sei puntate (proprio come il numero/nome del protagonista), può essere accostata anche al canale statunitense per il quale è stata fatta: quell’AMC (American Movie Classic), che sulla scia di Mad Man ha ridato nuovo vigore alla rielaborazione in chiave vintage della serialità e dei generi.