Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Ascolta l’intervista di RADIOCINEMA a cura di Laura Croce a:
L’intento di The Lady di Luc Besson, presentato al Festival di Roma e in sala dal 23 marzo, è per certi versi quello di contribuire alla causa della leader birmana Aung San Suu Kyi. Tanto che al momento della pre-produzione, il regista ha raccontato di aver detto alla sua assistente di cancellargli ogni impegno dall’agenda per i successivi 18 mesi. Ma proprio perché era chiaro da subito a tutti che l’intento principale di The Lady fosse appunto l’essere strumentale alla causa, si capisce ancor meno la scelta fatta da Besson di occuparsi quasi totalmente del confitto interiore di Aung San Suu Kyi lasciando sullo sfondo la lotta pacifista condotta dalla donna per far uscire il suo Paese da una sanguinosa dittatura. E l’aspetto peggiore è che uno dei registi più amati e apprezzati per le sue regie sempre originali qui cade nella gabbia del paternalistico e del melodramma con molte immagini stereotipate, scadendo in particolare nel momento in cui viene mostrata la lotta contro il cancro del marito della leader birmana. Non si è trattato probabilmente del miglior modo di raccontare il percorso unico di una donna, anche perchè è vero che Besson ha cercato di indagare l’aspetto umano lasciando sullo sfondo quello politico, ma quasi in contraddizione con questo – già al Festival di Roma – ribadiva che tutti noi dobbiamo fare i conti con le lotte per la libertà dei nostri nonni, delle lotte sanguinose degli ultimi anni in Africa. Delusione e rabbia per una grande occasione persa perché un assoluto rigore per le ambientazioni e per gli oggetti (tanto che il regista ha ricordato che nel 2010, mentre stavano girando, la leader è stata liberata e rivedendo le immagini al telegiornale ha pensato che avessero rubato il girato tanto erano fedeli la location, la scelta dell’abbigliamento, i fiori nei capelli) è stato vanificato da un ripetuto indagare il dolore personale per la lontananza dai figli, il dolore per la solitudine prolungata e per la morte del marito avvenuta in un ospedale inglese senza che la compagna potesse salutarlo.
Convincente l’interpretazione di Michelle Yeoh che ha dichiarato di aver cercato di interpretare anche i principi che guidano Aung San Suu Kyi: il suo senso di sacrificio, passione e impegno. Due notazioni musicali: l’inserimento di alcuni passi di Walk On di Bono degli U2 proprio sulle uniche immagini d’archivio delle manifestazione dei monaci è un modo per omaggiare il cantante che fece di tutto all’inizio degli anni ’90 per sostenere la leader della non violenza; invece le note di Mozart suonate da Aung San Suu Kyi nella casa del padre e poi fatte risuonare durante la cerimonia di assegnazione del premio Nobel sono la testimonianza della volontà di documentare quanto accadde in quelle due occasioni fondamentali per la vita e per l’evoluzione nella lotta al regime della leader asiatica.
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