Se al nuovo millennio mancava la sua Capanna dello Zio Tom, Dreamworks (e Disney, che distribuisce il film in Italia), vi ha posto rimedio, elaborando un nuovo piccolo capitolo nella filmografia dedicata al difficile percorso dell’integrazione razziale negli Stati Uniti, e specialmente nelle regioni del Sud. Stavolta non si parla della schiavitù ma dei suoi postumi nel Mississipi degli anni ’60, dove forse peggio che essere una donna c’è solo essere di colore, date le incursioni del Ku Klux Klan – che però rimangono solo di sottofondo – e il razzismo dilagante tra i signori bianchi benpensanti dell’alta borghesia. Figuriamoci poi essere al contempo di sesso femminile e di pelle nera, come le cameriere, “the help” appunto, costrette non solo ad accettare paghe bassissime, ma anche a sottostare ai capricci delle donne altolocate e a crescere con pazienza e affetto i loro figli trascurati, mentre i propri rimangono a casa da soli, indifesi e in situazione di sovraffollamento. In questo humus culturale reazionario la tensione è alle stelle e destinata ad esplodere da un momento all’altro: così, a fare da miccia arriva la giovane Skeeter, brillante laureata di buona famiglia, particolarmente sensibile alla causa della popolazione di colore e intenzionata a svelarne le pene attraverso un libro, con cui aprirsi anche le porte del grande giornalismo.
Con circa 169 milioni di dollari guadagnati negli USA e una serie di nomination di rilievo per il cast, praticamente tutto al femminile, The Help rientra tra i “casi” dell’ultima stagione cinematografica. Di certo non è il durissimo Il colore viola, né mostra fino in fono la tragica violenza di cui è stato disseminato il percorso della battaglia per i diritti civili, soffermandosi solo su quegli elementi di maggior effetto di superficie come l’Apartheid degli autobus o dei gabinetti all’interno delle case signorili. Poggiandosi inoltre su uno sguardo totalmente femminile, la scelta è stata quella di esaltare la dolcezza, in particolare quella del rapporto tra le cameriere e i bambini, ma anche gli anziani, abbandonati a se stessi dalle mamme borghesi troppo impegnate a pensare alla cotonatura dei capelli e alle serate di beneficienza a favore dell’Africa (pensate un po’, già da allora…). Ma anche quella tra donne di colori diversi e dal cuore grande, quando riuscivano a incontrarsi al di fuori dei condizionamenti sociali. Peccato che l’impianto stilistico sia tremendamente classico e per lo più privo di guizzi, comodamente disteso com’è sulla forza della storia che racconta e delle sue interpreti, la maggior parte meravigliose: dalla co-protagonista Viola Davis alla svampita, buona e insolitamente pin-up Jessica Chastain, passando per la mamma reginetta di bellezza Allison Janney, l’arcigna e perfida Bryce Dallas Howard, la cuoca impertinente Octavia Spencer e il cammeo di Sissy Spacek come nonna un po’ svampita. Non si può dire proprio lo stesso della protagonista Emma Stone, ma d’altra parte da Easy Girl ai Golden Globe e a una possibile candidatura all’Oscar, la strada è (e forse è bene che rimanga) molto lunga.
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