Dalla nostra inviata CATERINA GANGEMI
Sidney, 1973. Dopo l’ultimo infarto dell’anziana madre, aristocratica vanesia ed egocentrica, i figli Basil, attore donnaiolo e Dorothy, nevrotica e frustrata dama, entrambi piuttosto male in arnese, la raggiungono nella sua magione con la speranza di accalappiare quel che resta del patrimonio. L’inaspettata riunione familiare si ripercuoterà sui tre come un ricettacolo di vecchi rancori, conti in sospeso e torbidi retroscena, offrendo però loro l’occasione per riconciliarsi con se stessi, e porsi nell’occhio del ciclone delle proprie vite. “Una sorta di Re Lear al femminile”, così Charlotte Rampling ha definito il suo personaggio, quello della matriarca Elizabeth Hunter, effettiva protagonista, pur all’interno della coralità del racconto, di The eye of the storm di Fred Schepisi – presentato in concorso alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma – che segna il ritorno, a più di 20 anni di distanza da Evil Angels (1988), del regista nella sua Australia.
Tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Patrick White – ispirato al rapporto tra lo scrittore e sua madre – il film ruota infatti intorno al personaggio di Elizabeth, sfruttandone il carattere eccentrico e anticonvenzionale per offrire il ritratto di un’aristocrazia quasi ridicola nel suo perseguimento di un’immutabilità ormai obsoleta. “Elizabeth – descrive la Rampling – è una donna che sta invecchiando, morendo, perdendo il suo fascino. Una personalità difficile, antipatica ma anche buffa nel suo aver ormai abbandonato ogni freno inibitore; una donna indipendente fino in fondo, che ha affrontato un percorso molto lungo lasciandosi dietro molte vittime, a partire dai suoi figli che son costretti a pagarne le colpe”. “Al pari degli altri personaggi, Elizabeth ha delle aspirazioni – le fa eco il regista – in primo luogo quella di esortare i figli ad affrontare con coraggio la vita, così come ha fatto lei”. Peccato, però che delle radici letterarie non rimanga sulla pellicola che una debole traccia, quella dell’umorismo acido racchiuso in battute taglienti in pieno british-style, unico elemento in grado di riscattare l’adattamento di Schepisi dalla mediocrità di un taglio patinato e decorativo, quasi televisivo in una messinscena approssimativa nella sua contestualizzazione temporale, nel ricorso a facili e didascalici simbolismi (frutta bacata, scarafaggi e crepe sui muri, abiti lisi) dell’incombente decadenza, e nel suo liquidare, in una rappresentazione superficiale, il divario di classe tra padrona e servitù, traccia più interessante del racconto. Un impianto debolissimo, insomma, che riesce a stare in piedi solo grazie alle interpretazioni, solide ma comunque sopra le righe, di un cast che alla star Rampling affianca un Geoffrey Rush più gigione che mai, e la sempre ottima Judy Davis, unica in grado di evitare la caduta nel macchiettismo.