Dalla nostra inviata Daria Pomponio
La memoria ha percorsi tortuosi e ondivaghi, non appartiene mai veramente solo al singolo individuo, essa costituisce lo spirito pulsante e vivo del tempo e dei luoghi che l’hanno generata. Fantasmagoria cinematografica evanescente eppure cristallina sulla storia portoghese, Tabu di Miguel Gomes è una pellicola di rara bellezza e acume, la riprova che il cinema europeo d’autore possiede ancora coraggio, talento e una straordinaria creatività. Presentato in Concorso alla Berlinale 2012, Tabu è suddiviso in due capitoli, preceduti da uno splendido prologo fiabesco-ancestrale, dove un esploratore coloniale ricerca fino alla fine del mondo l’amata morta, ora in compagnia di un coccodrillo malinconico. La prima parte del film, dal titolo “Paradiso perduto” si svolge nel Portogallo di oggi, dove Pilar si divide tra opere di bene, manifestazioni per i diritti umanitari, preghiere e le visite alla senescente vicina Aurora, che vive con la domestica capoverdiana Santa e sperpera i suoi averi nel gioco d’azzardo. La salute dell’anziana si aggrava e allora Pilar, per esaudire un suo ultimo desiderio, va alla ricerca del misterioso Gian Luca Ventura. Sarà l’uomo ad introdurci nella seconda parte del film, il “Paradiso” dove in totale assenza di dialoghi, ma guidati dalla voice over del personaggio, ascoltiamo la storia di una passione clandestina bruciante e criminale, sbocciata nell’Africa coloniale, alle pendici del monte Tabu.
Rielaborando alcuni elementi fondativi ed inalienabili della storia portoghese (il colonialismo e la sua fine, l’emergere totalizzante del cattolicesimo dopo la Seconda Guerra Mondiale) Gomes va alla riceca dell’essenza stessa della propria cultura, e lo fa attraverso il cinema e la sua naturale propensione a restituirci ciò che è evanescente, intangibile, magico. Girato in bianco e nero e in formato 4/3, con una prima parte in 35mm e la seconda in 16mm e fondamentalmente muta, Tabu non è però un omaggio al cinema del passato né una sua glorificazione, e se recupera tecniche perdute è solo per metterle al servizio di una storia altrettanto antica. Tra paganesimo e rituali contemporanei, un presente asettico e un passato segnato dalla colpa, il Portogallo di Gomes è quello della memoria di una generazione che va scomparendo, il racconto orale degli ultimi narratori ancora in vita, un inno al potere e alle infinite possibilità del linguaggio cinematografico.