Saving Mr. Banks

La storia di come Walt Disney convinse la scrittrice del romanzo di Mary Poppins a fare il popolarissimo adattamento del '64. Auto-celebrazione disneyana all'ennesima potenza, con flashback da melodramma vittoriano e un ottimo Tom Hanks nei panni dell'inventore di Topolino.

Pur rientrando nel genere del biopic, Saving Mr. Banks appare un film decisamente curioso, non del tutto riuscito, ma a suo modo intrigante. Vi si racconta la vicenda della scrittrice P.L. Travers e di come si convinse a fare un adattamento cinematografico del personaggio di Mary Poppins, cui nel corso dei decenni aveva dedicato vari romanzi. La donna, australiana ma trapiantata in Inghilterra tanto da assumere l’accento british, resistette per anni alle lusinghe di Walt Disney fino a capitolare all’inizio degli anni ’60 e il film Mary Poppins, nel ’64, divenne da subito un enorme successo tanto da entrare immediatamente, a pieno titolo, tra i grandi classici disneyani. Saving Mr. Banks appare perciò una sorta di film in absentia, un racconto in cui si svelano le condizioni che hanno permesso la nascita di un capolavoro del cinema per bambini (e non solo, ovviamente) e di cui vediamo, necessariamente, solo qualche immagine, scoprendo pian piano quali siano state le premesse che hanno portato – nell’infanzia della scrittrice – all’apparizione del personaggio della straordinaria tata impersonata sul grande schermo da Julie Andrews.

I flashback vittoriani
L’aspetto decisamente meno riuscito di Saving Mr. Banks, diretto in modo abbastanza anonimo da John Lee Hancock, è proprio quello in cui si ripercorre l’infanzia della scrittrice protagonista, interpretata da Emma Thompson. Una infanzia tragica e melodrammatica, come se si trattasse di un vecchio romanzo d’appendice d’epoca vittoriana, in cui a spadroneggiare c’è suo padre, il Mr. Banks del titolo (dal nome che il personaggio ha in Mary Poppins). Il genitore, interpretato da un iracondo Colin Farrell, è un irlandese vecchio stampo che vive di illusioni e di sogni ad occhi aperti e che ha il brutto vizio di alzare il gomito. È proprio l’irrisolta relazione con il padre che, in Saving Mr. Banks, spinge la scrittrice a rifiutare in ogni modo i tentativi di adattamento cinematografico che vuole imporle Walt Disney.

La creatività della fabbrica dei sogni
Di fronte perciò a un personaggio tanto negativo quale quello incarnato dalla Thompson – quasi insopportabile per la sua antipatia e per la sua pedanteria – vi sono invece dei character decisamente più vitali: i leggendari fratelli musicisti Robert e Richard Sherman e lo sceneggiatore Don Dagradi, che contribuirono in modo determinante alla riuscita della Mary Poppins cinematografica. In Saving Mr. Banks, al di là della loro caratterizzazione – se vogliamo decisamente troppo buonista – quel che appare interessante è la messa in scena del loro lavoro creativo, una rappresentazione dell’organizzazione artistica hollywoodiana, dove in modo perfetto si univa (e si unisce) genio e contributo impiegatizio. Un segno del confronto vecchia Inghilterra/nuova America che tanto diverte gli statunitensi e che anche in questo film ha una sua evidente declinazione.

Walt ovvero Tom Hanks
E, ovviamente, il confronto Stati Uniti-Inghilterra si esplica soprattutto nella lunga diatriba – ora sotterranea, ora più scoperta – tra le contrastanti visioni del mondo di Walt Disney e della Travers. Lei un po’ frigida e sterile nel rifiutare ogni possibile cambiamento del suo romanzo, lui invece sornione e ammaliatore, decisamente più smaliziato rispetto agli stravolgimenti di un atto creativo. Entrambi, però, si scoprirà poi, connotati da un forte attaccamento al passato e dal perenne ricordo di alcune loro creature di penna (e di matita). Tom Hanks, nei panni del vecchio Walt, è davvero eccellente, capace di restituire l’ambiguità di fondo dello sguardo del creatore di Topolino e quel suo vago ricordare, nelle fattezze del volto, il personaggio di un fumetto.

L’elogio disneyano
Il discorso di fondo di Saving Mr. Banks appare perciò evidente: un’autocelebrazione dell’approccio industriale americano rispetto alla creatività e, dunque, un’autocelebrazione di chi, meglio di tutti, ha saputo incarnare genio e fiuto per gli affari: quel Walt Disney capace di costruire un impero inimitabile. Il grosso problema del film è però, per l’appunto, che questo discorso viene fatto in contrapposizione con una co-protagonista troppo intrisa di ricordi maldestramente melodrammatici e troppo monocorde nella sua ottusità e perciò troppo facile preda delle magnifiche lusinghe della fabbrica dei sogni.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi