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Dopo alcuni episodi intimistici e poco riusciti (Quando sei nato non puoi più nasconderti e Sanguepazzo), Marco Tullio Giordana torna ad affrontare di petto la Storia del nostro paese, i suoi misteri, le sue ingiustizie, come già ne I cento passi e La meglio gioventù. Stavolta però senza retorica e senza grosse concessioni allo spettacolo, forse perché in Romanzo di una strage i personaggi non hanno più ideali o – almeno se vi sono – sembrano già nel segno della sconfitta e della disillusione. Quello che intende raccontare il regista milanese è la fine dell’innocenza di un paese che di fronte all’esplosione della bomba (o delle bombe?) alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano il 12 dicembre del 1969 non ha saputo trovare risposte, se non storiche e morali. Se l’ultima sentenza, datata 2005 (!), ha riconosciuto colpevoli i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, nessun tribunale però è riuscito a condannarli. Questo è il primo vero compito che vuole assolvere Romanzo di una strage: raccontare quei fatti additando i colpevoli, cercare di rendere patrimonio comune una verità che è stata seppellita da tante, troppe menzogne, e da infiniti depistaggi.
Ma Giordana – scegliendo di affrontare un ampio arco narrativo che va dalla strage di Piazza Fontana all’omicidio di Calabresi del ’72 passando per la “morte accidentale” di Pinelli – fa di più del già lodevole compito “educativo” e cioè ripercorre ad una ad una – per quanto possibile in un film che dura poco più di due ore – le differenti piste che sono sbocciate in seguito a quella strage e le differenti tensioni, tragedie e crisi di coscienza. Una su tutte, quella di Calabresi, interpretato da un enigmatico e dolente Mastandrea, che è forse il vero protagonista del film, colui che si porta il carico di mettere in discussione lo Stato di cui è fedele servitore. Il percorso di Calabresi – come viene raccontato da Giordana – è quello di un uomo che dall’ossessione generica verso anarchici e sovversivi di sinistra si trova costretto a guardarsi dai nemici all’interno dello Stato, che lo lasciano solo dopo la morte di Pinelli. E’ sul binario Pinelli-Calabresi che si muovono le coscienze di Romanzo di una strage. Ma non tanto nel senso di una riappacificazione tardiva tra due opposti schieramenti, quanto in quello di una comune perdita di fiducia nello Stato (che nell’anarchico Pinelli era ovviamente già data in partenza). A fianco di figure che appaiono necessariamente prive di spessore e di profondità, perché in loro deve esprimersi una sola posizione (i neofascisti e i servizi deviati, il personaggio del giudice onesto interpretato da Lo Cascio, alcune figure politiche di contorno, un Valpreda che appare quasi macchiettistico), sono invece i personaggi di Pinelli e Calabresi a dare corpo al racconto, insieme a un terzo imprescindibile punto cardinale del film, rappresentato da Aldo Moro. Parzialmente sopra le righe, non poco misticheggiante, gesticolante, consapevole di tutto ma silente per ragion di Stato e per evitare il deflagrarsi di un Paese su stesso, l’Aldo Moro di Giordana, incarnato da Fabrizio Gifuni, è il ritratto perfetto del politico democristiano nella sua essenza. Pur non apertamente coinvolto nelle vicende (all’epoca era comunque Ministro degli Esteri) Moro viene descritto come colui che sa (grazie a un’inchiesta parallela da lui fatta condurre) e dunque rappresenta la coscienza non tanto di un Paese, quanto di un’élite nazionale che si trova costretta, per amor di Patria, al machiavellismo.
La scelta di inserire Moro è tra l’altro lungimirante proprio per quel suo parlare ai posteri. Perché – se è vero che dalla strage di Piazza Fontana nasce per certi versi anche la reazione da sinistra della lotta armata (e poco dopo, nel ’70, veniva fondato il primo nucleo delle BR) – è allora con il rapimento e l’uccisione nel ’78 del politico democristiano che si chiude un ciclo storico, fatto di violenze e deviazioni ideologiche. Giordana non arriva a questo ma, vestendo Moro di alcune caratteristiche che si potrebbero definire profetiche, vi allude in modo evidente. Lode dunque a una sceneggiatura complessa e stratificata, solida e chiara, scritta dal regista insieme a Stefano Rulli e Sandro Petraglia, così come a una regia che non si fa invadente e opta per scelte stilistiche misurate (valga l’esempio del monologo iniziale di Moro, reso nella penombra e con diversi primi piani quasi deformanti). Ed è inevitabile chiudere anche con una lode per il cast, da Laura Chiatti a Michela Cescon, passando per Giorgio Colangeli e Luigi Lo Cascio, con una particolare nota di merito però proprio per Piefrancesco Favino, Valerio Mastandrea e Fabrizio Gifuni che nei panni rispettivamente di Pinelli, Calabresi e Moro mettono in scena quasi tre differenti drammi da camera, tragicamente confluenti.
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