Dalla Cina di “Qingnian” alle battaglie partigiane di “L’uomo che verrà”, è già possibile fare le prime previsioni riguardo agli esiti del Festival Internazionale del Film di Roma
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
22/10/09 – Dopo “Plan B” di Marco Berger, anche “Qingnian” del cinese Geng Jun si colloca nell’ambito di una estetica programmaticamente low-budget e, come il film argentino, ha riscosso purtroppo ben pochi consensi. Eppure non si può negare a quest’opera così apparentemente sfilacciata la forza di una critica radicale alla tragica condizione della Cina globalizzata. In una remota regione a nord del paese la vita scorre squallidamente alla ricerca continua di denaro, per poter sopravvivere un giorno in più. Ma quel che lascia esterrefatti è la stupidità di questi personaggi, la loro ebetudine, l’idiozia che li conduce a compiere azioni scellerate e irrazionali, portandoli sovente a delle morti grottesche. Ne consegue una costante contiguità fra tragico e comico che fa di “Qingnian” il titolo più “eccessivo” del Concorso di Roma 2009. E dall’unico film asiatico in competizione si ricava anche una lezione forse inedita – almeno per il modo in cui viene declinata – nell’ambito del cinema mandarino: la verifica dell’incapacità del popolo cinese nel rapportarsi al mito del self made man in conseguenza di una sorta di costituzionale inadattamento al selvaggio neo-capitalismo (ne è esemplare in tal senso la vicenda dei due ragazzi che cercano invano di diventare gangster); una cieca smania di successo che ha provocato tra l’altro lo svuotamento di senso delle tradizioni culturali, lasciando l’uomo cinese privo di un qualsiasi orizzonte comportamentale.
In ogni caso il miglior film è finalmente arrivato con il terzo e ultimo titolo italiano in selezione, ”L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti, resoconto ‘contadino’ della strage di Marzabotto perpetrata dai nazisti nell’autunno del ’44. L’autore de ”Il vento fa il suo giro” conferma la sua rara sensibilità nel raccontare la dura vita delle campagne, una comunità di persone forte e solidale che qui, al contrario di quel che accadeva nel primo lungometraggio del regista, viene connotata in modo del tutto positivo. L’epos contadino è fatto di gesti rituali, di lavori e saperi condivisi (si veda la scena del racconto serale), ma soprattutto ha modo di dispiegarsi in virtù di un legame e un rispetto profondi verso la terra. Gli invasori nazisti (e fascisti) perciò altro non sono che usurpatori dell’heimat e per questo da combattere: la scelta partigiana è tutta qui e non ha bisogno di alcuna ulteriore mediazione intellettuale. Così l’uomo che verrà è colui che si troverà ad ereditare l’insegnamento nato dal sangue e dalla sofferenza e in cui è (ri)nata la consapevolezza dell’essere al mondo e dell’indipendenza (straordinaria è in tal senso la continua fuga della bambina per non dover e non voler condividere nulla con i tedeschi, fino al risolutivo ritorno a casa). ”L’uomo che verrà” si pone dunque come una grande lezione di Storia, un doveroso richiamo alla memoria, un invito alla condivisione dei saperi e delle nostre radici; ma il secondo lungometraggio di Giorgio Diritti è anche una semplicissima lezione di cinema. Senza artifici, senza ricorrere a inutili enfasi, con uno sguardo pieno di comprensione dei ritmi della Natura e con un occhio costernato di fronte alla violenza (ne è esempio la sequenza della battaglia tra tedeschi e partigiani, vista in campo lunghissimo, quasi annegando le figure nel verde dei prati), ”L’uomo che verrà” si candida senza dubbio come favorito alla vittoria finale.
Deludono invece gli ultimi due titoli del Concorso: ”Vision” della veterana Margarethe von Trotta e ”Brotherhood” dell’esordiente danese Nicolo Donato. Il primo è la stucchevole messa in scena delle vicende biografiche di una monaca benedettina vissuta all’incirca nel Mille dopo Cristo; stucchevole perché girato con una leggerezza e un’approssimazione inadatte al tema affrontato (si vedano certi zoom sui volti delle monache che fanno pensare a un action anni Settanta) e perché narrato in modo meccanico, contraddittorio ma soprattutto ingenuo (è incomprensibile come la monaca abbia potuto raccontare delle sue visioni a un uomo, seppur di Chiesa, piuttosto che a una sua compagna o alla badessa che l’aveva educata). ”Brotherhood” invece ha tutt’altro set: la scena neo-nazi nella Danimarca contemporanea. Ma i risultati anche qui sono abbastanza mediocri. In particolare sembra che al film manchino gli elementi essenziali: le motivazioni del protagonista (non ci si può unire ai neonazisti solo perché si è litigato con i genitori), la storia d’amore omosessuale tra i due personaggi principali (la distanza con ”Plan B” è enorme) e la descrizione del sottobosco dei giovani dell’ultra-destra (che fanno oltre a ingollare birra? Sembra che il regista non si sia poi documentato così tanto).
Restiamo dunque in attesa di sapere i nomi dei vincitori, non senza permetterci di fare le nostre previsioni: ”L’uomo che verrà” miglior film secondo la giuria, ”Up in the Air” premio del pubblico, Sergio Castellitto miglior attore, Blanca Romero (interprete di ”After”) o Valeria Solarino miglior attrice.