Qualche riflessione post-festivaliera
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
24/10/09 – Ha vinto Brotherhood di Nicolo Donato oppure dobbiamo dire che non ha stravinto L’uomo che verrà di Giorgio Diritti? In effetti se l’esordio del regista danese di origini italiane ha ottenuto il premio come miglior film dalla giuria presieduta da Milos Forman, il film di Diritti si è visto assegnare il Marc’Aurelio d’Oro del pubblico e il Gran Premio della giuria (oltre al premio speciale La meglio gioventù attribuito dal Ministero della Gioventù). Forse sono buone entrambe le risposte, fatto sta che Brotherhood è a nostro avviso un film mediocre, posticcio nella descrizione del rapporto amoroso omosessuale (a proposito del quale era molto ma molto più convincente Plan B), ma anche approssimativo nella rappresentazione del mondo dei neo-nazi, di quei giovani virgulti post-hitleriani che evidentemente anche in Scandinavia hanno un certo seguito e preoccupano non poco la società civile (si veda in proposito la trilogia di Millennium dello scrittore Stieg Larsson). Sì, magari Brotherhood è ben girato, ma è decisamente troppo meccanico nei rapporti e nelle situazioni che sceglie di sviluppare. L’uomo che verrà invece ci era parso il miglior film del Concorso e le sue qualità sono state in qualche modo riconosciute. Nulla da obiettare a proposito di Castellitto sacrosanto vincitore del premio come miglior attore, mentre qualcosa da dire su Helen Mirren, che vince come miglior attrice, ce l’abbiamo. L’interprete inglese, Coppa Volpi e Oscar per The Queen (2006), si è distinta in ben altre vesti che in quelle della moglie pedante di Tolstoj in The Last Station, pellicola per cui è stata premiata qui a Roma. Anzi, il film di Michael Hoffman ha dato l’impressione di essere talmente confuso e tanto fuori contesto (un background tipicamente russo riletto secondo i codici anglosassoni) che ben poco si poteva salvare a nostro parere.
Comunque sia, è tempo di bilanci: il Concorso della quarta edizione del Festival di Roma ci è sembrato di qualità media, non inferiore comunque a quello dello scorso anno (se si eccettua la magnifica eccezione di Opium War che tra l’altro fu premiato dalla giuria). Tra il migliore, L’uomo che verrà, e i più deboli, The Last Station e Vision, si sono visti diversi film molto interessanti come Qingnian, Plan B e After, altri meno riusciti ma comunque capaci di coinvolgere per diversi motivi (lo straordinario Castellitto e il melting pot di Ostia-Fiumicino in Alza la testa, le tragiche conseguenze della guerra nella retina di un fotografo in Triage, il sincero amore lesbo in Viola di mare) e un titolo come Up in the Air di Ivan Reitman che ha confermato le doti di questo giovane regista, vincitore nel 2007 con Juno. Però, Qingnian, Plan B e After, i titoli a nostro modo di vedere più coraggiosi del Concorso, sono stati anche quelli maggiormente stroncati dalla stampa e non vorremmo che questo inibisca i selezionatori a scegliere in futuro film bordeline, magari anche “sporchi e cattivi”. Va detto comunque – e non era affatto scontato, anzi – che nel complesso la selezione italiana del Concorso vista qui a Roma è stata superiore di quella presentata a Venezia. L’uomo che verrà, Alza la testa e Viola di mare ci sono parsi nel complesso buoni film, più o meno sullo stesso livello de La doppia ora e de Lo spazio bianco, ma preferibili senza dubbio a Baarìa e a Il grande sogno. In particolare, però, L’uomo che verrà è una spanna sopra gli altri e ancora risulta oscuro il motivo per cui Venezia abbia deciso di lasciarselo sfuggire (lo si voleva “relegare” in Orizzonti piuttosto che nel concorso principale).
Il festival è durato un giorno in meno rispetto allo scorso anno, ha avuto un minor numero di spettatori, ma non lo si direbbe in crisi. Anzi, superato il terribile turning-point dello scorso anno, quello del passaggio di consegne tra Veltroni e Alemanno, la kermesse romana ha acquisito un suo status e se continua a dare l’impressione di essere un’autocelebrazione della romanità cinematografica, questa caratteristica allo stesso tempo è (e sarà) la sua forza: nessun altro può contare su una location siffatta; peccato che tutto o quasi sia dislocato in un luogo altro come l’Auditorium, collegato malissimo con il resto della città (e non ha aiutato quest’anno la sorpresa di aver a che fare con i lavori in corso per un lungo tratto della via Flaminia). L’idea veltroniana di celebrare Roma e la sua storia cinematografica dunque continua a sopravvivere e se qualcuno ancora lamenta la mancanza d’identità del festival non gli si può che rispondere così: il festival è Roma e Roma è il festival, molti lustrini, parecchia autarchia, un po’ di confusione, qualche eccentrico e un bel “volemose bene”.