Sguardi sonori – Viaggio tra le sette note composte per la settima arte – a cura di Emanuele Rauco
Il rock negli anni ’80 era questione di capelli. Cotonati o lunghi, biondi o colorati, segnavano la musica che una band suonava come l’uso delle chitarre, non a caso si chiamava hair rock o hair metal. A quell’epoca, ridicola e gloriosa a un tempo, Chris D’Arienzo ha dedicato un musical teatrale diventato poi un film di Adam Shankman, Rock of Ages (da una canzone dei Def Leppard) che attorno a una storia per nulla originale – memore di Footlose – costruisce una sorta di film-concerto per amanti del genere.
Con fare classificatorio ed enciclopedico, D’Arienzo e Shankman prendono il meglio di quell’epoca, soprattutto definendo una volta per tutta che l’hard-rock di 30 anni fa era qualcosa di diverso dall’hard-rock tout court, capelli a parte: era questione di attitudine festaiola più che selvaggia, in cui la ribellione era potersi sbronzare e fare sesso senza limiti, in cui la dimensione del concerto non era un sabba o un ritrovo “mistico”, ma il miglior party possibile. Chitarre dure certo, ma ritmi accattivanti e melodie travolgenti che sfioravano il pop, e a volte lo incrociavano decisamente.
20 canzoni – oltre le versione originali – riarrangiate, mescolate in mash-up, adattate alle chiave narrative del film: si parte con uno degli inni riconosciuti di quell’era, Paradise City dei Guns ‘n’ Roses e si arriva fino alla monumentale Don’t Stop Believin’ dei Journey. In mezzo alcune vere e proprie pietre miliari per estimatori: l’ouverture che mescola Sister Christian (Night Ranger), Just Like Paradise (David Lee Roth) e Nothin’ but a Good Time (Poison); Hit Me with Your Best Shot di Pat Benatar, Wanted Dead or Alive di Bon Jovi (uno dei numeri migliori del film), l’irresistibile Anyway You Want It sempre dei Journey, l’iper-classico Rock You like A Hurricane degli Scorpions e il duetto We Built this City (Starship)/We’re not Gonna Take it (Twisted Sister).
Tutte rigorosamente cantate dagli attori del film, tutti bravi – eccetto i plastificati protagonisti giovani – da Catherine Zeta-Jones (che è nata per il musical, come dimostrò in Chicago) a Russell Brand. Ma a vincere il premio del più grande rocker in scena è a mani basse Tom Cruise: la sua entrata in scena cambia e monopolizza il film, il suo magnetismo animale trascina il pubblico in una performance che spazia da Axl Rose a Bruce Dickinson, racchiudendo nel suo piccolo e teso corpo decenni di storia del frontman. Incredibile, come il sudore che lo spettatore porta con sé a fine film, dopo due ore di canto e ballo: il cinema come fosse un’esperienza dal vivo.