Slow Food Story

Ritratto encomiastico, condiscendente e familista di un uomo di potere dell'Italia contemporanea e tratteggio pubblicitario del trionfo di una delle sue idee più efficaci. Uscita in sala raramente così immeritata. Le nostre interviste al regista e a Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.

L’italiano è una gran bella lingua, tra le altre cose anche perché offre una parola giusta per descrivere nel dettaglio qualsiasi cosa. Slow Food Story è un film encomiastico.

Stefano Sardo a Slow Food è di famiglia – lo ha detto lui in un’intervista: nato e cresciuto a Bra, frequentatore assiduo del gruppo di amici incardinato intorno alla figura carismatica di Carlo Petrini – tra le molte altre cose anche ideatore e fondatore di Slow Food che da Bra ha iniziato la sua ascesa internazionale – Sardo scrive un progetto di documentario sull’associazione divenuta ormai S.p.a. che da “presidio” locale è divenuto marchio, azienda, movimento e cultura localista globale (glocal, direbbe qualcuno appassionato di neologismi). Dopo un periodo di allontanamento dai destini di quel progetto, Sardo viene ricontattato dalla produzione che lo invita a dirigere e firmare il film.

Primo grosso problema: Slow Food Story non è affatto la storia di Slow Food, ma il ritratto apologetico della sua figura di punta, del suo leader, dell’uomo che ne ha fatto un prodotto da esportazione, dopo aver avuto un’idea rivoluzionaria giusta e contagiosa. Dagli anni della culla fino ai più recenti trionfi (il tono è per l’appunto quello di un depliant illustrato, di un flano di propaganda d’antan) Slow Food Story ricostruisce la biografia di Carlo Petrini colorandone con toni familiari, bonariamente ironici, decisamente e fastidiosamente condiscendenti tutte le gesta, dalle goliardate con gli amici all’attività politica (nella sinistra comunista), dalle prime lungimiranti idee fino agli ottenimenti sul fronte dell’eco-politica.

Secondo grosso problema: Sardo sceglie di farci sapere – intervistando la sorella di Petrini – quali piatti si preparavano e consumavano in casa Petrini quando il patron di Slow Food era ancora un pargolo, ci illustra alcune amicizie importanti, ci tiene addirittura a dar la parola all’ex Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, Gianni Alemanno (obbligo “contrattuale” visto il coinvolgimento della Regione Lazio nella produzione? chissà. A proposito: quanti ex a prender parola in questo film, teste canute che hanno ricoperto incarichi accanto o intorno al leader grastro-politico ricordando e lodandone carisma e inventiva); ma sulle scelte difficili, sugli ostacoli da superare, sui dettagli tecnici dietro le piccole e grandi rivoluzioni che Petrini ha saputo guidare, quasi nulla è detto, scritto o mostrato. L’unica – letteralmente – frase vagamente critica – cioè decostruttiva, analitica e non semplicemente descrittivamente elogiativa viene lasciata al più vecchio e canuto tra tutti gli interpellati, l’autore del manifesto che nel 1989 venne sottoposto al vaglio e alla firma di una vasta rappresentanza internazionale (l’idea espressa è suppergiù che quando si passa alle logiche dell’economia e dell’impresa, la rivoluzione inevitabilmente la si mette da parte).

Ondivago e stilisticamente schizofrenico (s’inizia con la voice over dell’amico intimo Azio che presto scompare per tornare quasi solo alla fine, si mettono insieme immagini d’archivio, animazioni, interviste, grafiche da video promozionale e repertori “aziendali” senza troppo gusto né raffinatezza, si usano spregiudicatamente effettacci televisivi da prima serata) Slow Food Story non riesce neppure a essere illustrativo tant’è lacunoso e superficiale, teso a non far mai cadere l’alone enfatico intorno al deus ex machina, al lider maximo, al gran capo, all’inventore geniale, al Cristo Risorto (ebbene sì, si arriva anche a questo iperbolico paragone). Spiace, vedendo scorrere i titoli di coda, considerare quante risorse economiche pubbliche siano state investite in questo progetto quantomeno discutibile e spiace anche considerare quanto in questo paese sia più facile far uscire in sala un video promozional-aziendale rispetto invece a, mettiamo il caso, uno degli ultimi, splendidi documentari di un maestro come Werner Herzog.

SILVIO GRASSELLI