Pesaro 53: Baba vanga

Quando la magia incontra il cinema spesso si entra in un mondo alternativo, popolato di visioni e personaggi ambigui: si comincia a sognare a occhi aperti. Baba Vanga non è nata dalla penna di uno scrittore fantasioso, ma è stata una delle più importanti mistiche del novecento. Sulle montagne della Bulgaria, ha fondato una setta e i suoi seguaci erano convinti che fosse in contatto con un’altra dimensione, dove uomini invisibili le sussurravano il destino dell’umanità. Anche il regime ha riconosciuto la sua importanza e si dice che Baba Vanga abbia incontrato Breznev in persona. Le sue profezie riempiono il web, ma il personaggio è controverso. La donna ha tramandato le sue illuminazioni solo con la parola e non ha mai scritto nulla. Il dubbio è che i suoi adepti possano aver manipolato i suoi racconti. Inoltre molte predizioni non si sono mai avverate, per altre bisognerà aspettare lo scorrere del tempo.

In Baba Vanga, l’esordiente Aleksandra Niemczyk non si interroga sull’autorevolezza della veggente e narra la sua storia per ellissi, attraverso i silenzi e i ricordi. Baba Vanga vive sola nel bosco, in una casa trascurata, e non c’è traccia di civiltà attorno a lei. Ha perso la vista in tenera età quando, secondo il mito, un uragano l’avrebbe travolta e scaraventata in un campo, dove è rimasta per giorni. Nella quiete del film, non c’è spazio per i sensazionalismi e la cecità arriva in seguito a un forte vento. La gente comincia a scoprire le sue doti e un uomo si arrampica fino alla sua casa in cerca di vendetta: vuole sapere chi ha ucciso suo fratello. Nella realtà, lui sposerà la mistica e morirà da soldato. In Baba Vanga è solo di passaggio, e la sua sete di sangue non disturba la pace che regna tra quegli alberi.

La regista dà vita a un racconto pacato, in cui non esistono azioni forti ma solo gesti calcolati. I dialoghi sono quasi assenti e per i primi quaranta minuti sono le immagini a parlare. Qualche volta l’angoscia di Vanga dopo una “verità” rivelata invade lo schermo, e poi torna la calma. La stessa che regna nei film di Béla Tarr, di cui Niemczyk è stata allieva a Sarajevo. Le lezioni del maestro ungherese hanno dato i loro frutti e anche qui ritornano: la stessa spasmodica ricerca delle simmetrie nelle inquadrature, i lunghi carrelli e i piani sequenza, in questo caso non in bianco e nero. I monitor verdi disseminati per l’abitazione di Vanga mettono in contatto lo spettatore con la mente della “maga”, mentre il futuro prende forma nel presente.

Molti sostengono che Baba Vanga sapesse dell’11 settembre, delle migrazioni in Europa e che, sempre secondo il suo pensiero, tra qualche centinaia di anni viaggeremo nel tempo, combatteremo una guerra su Marte e diventeremo immortali. La fine dell’universo sarà nel 5079. Verità? Bufale? Non saremo noi a scoprirlo. La certezza è che il rigore di Baba Vanga colpisce in quest’epoca in cui ogni secondo è prezioso. La velocità è il mantra dei nostri anni, ma Niemczyk va oltre gli schemi e dimostra che nel buio della sala cinematografica si può ancora trovare il passo giusto.

Gian Luca “Weirdo” Pisacane per cinematografo.it