Che rapporto c’è tra la politica e l’inconscio e che ruolo giocano verità e segreti in ognuno di essi? Sembra la domanda che regge La cordillera di Santiago Mitre, autore tra i più interessanti del cinema argentino contemporaneo qui alle prese per la prima volta con quella che potremmo definire una grande produzione sulla scia di House of Cards e altri drammi a sfondo politico.
Il film racconta di un summit riguardante il petrolio tra le nazioni del sud America: il protagonista è il presidente argentino (sempre ottimo Ricardo Darìn), uomo benvoluto e comune che infatti viene conteso tra chi vorrebbe allargare il summit agli USA e chi invece vorrebbe l’indipendenza petrolifera. Ma un esaurimento nervoso della figlia porterà lo scompiglio nel summit.
Scritto da Mitre con Mariano Llinàs, La cordillera è un dramma politico dall’aroma thriller che dentro un intrigo di bell’impatto sa immettere tracce di psicoanalisi e filosofia.
A legare questi temi c’è infatti la presenza di uno psicoanalista che fa riemergere dal profondo della figlia ricordi e segreti, innescando azioni e reazioni, portando Mitre a interrogarsi su come tanto la politica quanto la psiche lavorino sul non detto, sulla manipolazione della verità e del concetto di Bene, sull’impossibilità di dare una concretezza alla verità e alla parola.
E in effetti La cordillera è un film di parole, di dialoghi di grande livello recitati da ottimi attori, di temi e idee che costruiscono la realtà anziché rappresentarla. E così la mente di una figlia diventa il laboratorio in cui sperimentare il lavoro sulla nazione e sul suo corpo elettorale (magnifica la colazione al bar: lui per chiederle di rivelarle un segreto scherza “Sono il presidente”).
Mitre sfodera una scrittura acuminata che la regia deve solo accompagnare in modo funzionale con ritmo, tensione e una patina visiva quasi di lusso, in linea con le nuove narrazioni e le modalità filmiche della migliore tv contemporanea: tanto da far pensare a un sequel. O a una stagione per il piccolo schermo.