Nel 2011 esce The Artist, film grazioso e lezioso del francese Hazanavicius: spettatori e Academy gridano al capolavoro perché si gioca a rifare il film muto. In quel mentre Pablo Berger – a quanto dicono i suoi sodali e collaboratori – è già al lavoro da anni a un progetto simile se non identico, almeno nelle premesse: raccontare una fiaba al cinema usando il bianco e nero e l’estetica del muto. A settembre 2013 finalmente esce Blancanieves che fa incetta di Goya – gli Oscar spagnoli – e inizia un felice percorso internazionale tra acquisti esteri e festival. Il clamore suscitato non è lo stesso, ma in realtà il progetto è più originale e più inusitato del precedente omologo francese: un divo torero viene incornato perdendo in un sol colpo moglie e carriera e cadendo – inchiodato a una sedia a rotelle dalle ferite riportate – nelle grinfie di una bieca profittatrice che ne usurpa il capitale, ne schiavizza la figlia, giungendo perfino a ucciderlo. La ragazza attraversa lo stesso rischio sopravvivendo però grazie all’intervento di un gruppo di toreri nani, una compagnia di giro grazie alla quale farà il suo trionfale ritorno a Siviglia, dove però la matrigna l’attende tramando malignamente. Una fiaba classica trasportata negli Anni venti spagnoli e ambientata nell’universo spettacolare e cruento della corrida.
Il gioco è semplice e lo stupore, la meraviglia, il divertimento cedono presto il passo alla noia. Nonostante una regia accurata, esatta, il fascinoso e intenso bianco e nero e un cast davvero impeccabile, Berger sembra incappare nello stesso abbaglio che colpì prima di lui il collega francese: per quanto i due tentino di riprodurre il modo d’inquadrare e di cadenzare il racconto del cinema muto, oltre i cartelli, il silenzio, l’uso scaltro della musica (che passa impercettibilmente dal commento, alla coloritura emotiva fin quasi a debordare dentro la diegesi, mimando il suono delle azioni riprese) quel che resta è la rincorsa a una maniera, un’operazione filologicamente poco rigorosa che da una parte dimentica troppo difficilmente il legame con il cinema del presente (anni Duemila) e dall’altra non sa, non può, non vuole lanciarsi nella vera cifra che costituisce la bellezza e la ricchezza del cinema muto: la radicale, estrema libertà di un’estetica che – slegata dal legame col suono – pativa assai meno i vincoli del naturalismo e della verosimiglianza. La passione di Pablo Berger per il cinema traspare chiaramente dalle vaghe citazioni di cinefilo, dal gusto nostalgico per l’inquadratura, dalla capacità di usare il cinema per trasfigurare corpi, volti, e luoghi. Tuttavia, alla fine, si ha l’impressione che il film, la creatura, non si animi mai del tutto e che invece giaccia, infine, esanime e priva di una vita sua propria.
SILVIO GRASSELLI