Il figlio di Saul del regista ungherese Laszlo Nemes è uno di quei film che porta lo spettatore nell’orrore dei campi di concentramento mostrandoci tutto solo attraverso la soggettiva (gli occhi) del protagonista. Il film sviluppa in chi guarda un profondo senso d’angoscia, accentuato da una macchina da presa che sta vicinissima al protagonista tutto il tempo. Quando inizia il primo piano sequenza di Evolution (presentato nelle sale italiane con il titolo Quel giorno tu sarai) di Kornèl Mundruczò, anch’esso ungherese, la sensazione di angoscia è la stessa anche se la macchina da presa mostra una realtà oggettiva. Lo spazio all’interno del quale tre uomini (tre soldati della croce rossa polacca) si muovono è quello di una camera a gas che gli uomini sono stati chiamati a pulire. Sembra un lavoro inutile perché l’acqua gettata sui muri, sul pavimento e i grossi spatoloni non sembrano togliere la sporcizia presente sull’intonaco. Poi la macchina da presa si avvicina ad una parete e una mano estrae da essa un po’ di capelli che sembrano essere rimasti incastrati. Piano piano gli uomini trovano matasse sempre più spesse e sul loro volto si disegna tutto lo sgomento per l’orribile. Ancora spazzole provano a pulire, fino a quando, da quel luogo di morte e di evidente dolore e sofferenza, il pianto di un bambino parla di vita che è stata capace di sopravvivere. Una volta fuori dalla stanza termina il lungo piano sequenza e lo spettatore scoprirà che la scena è ambientata ad Auschiwitz e alla piccola neonata, protagonista del pianto, viene messo subito un bel colbacco dei liberatori russi, per proteggerla dal freddo.
Uscendo con la bimba dalla camera a gas, lo spettatore vive un senso di profonda gratitudine per la fine dell’angoscia portata da quei capelli, da quelle tante vite spezzate ma il regista, ancora in una stanza – questa volta inondata di luce – ambienta il secondo atto del racconto. La bambina salvata si chiama Eva e ora la vediamo ormai donna adulta (Lili Monori) che riceve la visita della figlia Lena (madre a sua volta del giovane Jonas). Anche qui un lungo piano sequenza riprende non movimenti quasi muti ma il fitto dialogo che intercorre tra le due donne segnate da ciò che accadde a Eva in quel campo di prigionia e che – una volta liberata – continuò a temere che le persecuzioni potessero riprendere. Eva che continuava a conservare le croste del pane, Eva che non sapeva quale lingua usare per esprimersi. Eva sempre piena di paura. Lena, con quell’angoscia, con quella paura aveva dovuto vivere tutta la sua infanzia e adolescenza e, alla ricerca del certificato di nascita della madre che potrebbe garantirle un risarcimento economico in denaro, cerca un dialogo con l’anziana, più che uno scontro anche perché, quando potrebbe andar via sbattendo la porta, torna per continuare a parlare, a far ragionare Eva. Nel dialogo, anche nel suo essere molto aggressiva, Lena cerca di trovare la sua stessa identità perché la madre, per paura, non si era mai voluta definire ebrea.
Terzo anno. Anni dopo, a Berlino, partendo dal giardino di una scuola, lo spettatore conosce Jonas che – bullizzato dai compagni e, vittima di episodio di antisemitismo, dopo aver portato una lanterna ebraica a scuola (costruita volutamente dalla madre) – prova ad avvicinarsi alla ragazza che gli piace: la compagnia di scuola Yasmin, musulmana alla quale il padre non perdona il colore blu dei capelli tanto da decidere di raderla completamente. Jonas ha la foto della nonna sul pianoforte di casa, nella sua stanza ha solo parrucche e trucchi per costruire maschere mostruose che spaventano la madre e chiunque entri nella sua stanza.
Se il primo episodio trae ispirazione dai racconti del premio Nobel Imre Kertész che raccontò il ruolo della croce rossa polacca e del ritrovamento di alcuni bambini ebrei nascosti nelle camere a gas per farli fuggire da morte certa, il resto del racconto intreccia un po’ di storia ungherese e fatti realmente accaduti alla sceneggiatrice Kata Wéber, che aveva una mamma con davvero 5 certificati di nascita falsi nel cassetto.
A parte il legame famigliare, i tre atti sono legati da un elemento molto simbolico come l’acqua che all’inizio lava via o prova a lavar via l’orrore, che nel secondo episodio arriva con tutta la sua irruenza a cancellare ogni cosa, per poi – nel terzo- scorrere come il flusso del fiume che fa da sfondo all’abbraccio d’amore di due adolescenti che guardano insieme (splendido il loro sguardo nella stessa direzione) i compagni che festeggiano una festa cattolica che Jonas e Yasmin, ovviamente, non sentono come loro.
Kornèl Mundruczò è uno dei grandi talenti della cinematografia europea e Martin Scorsese che ha voluto essere produttore esecutivo del film, riconoscendo ai due artisti (regista e sceneggiatrice) la capacità di “non smettere mai di avventurarsi in territori inesplorati. Con questo film riescono a drammatizzare il movimento stesso del tempo, il modo in cui ricordiamo e il modo in cui dimentichiamola capacità di raccontare storia”.
Un film straordinariamente intenso, al quale si continua a pensare a distanza di ore dalla proiezione perché, attraverso la storia di Eva e dei suoi discendenti, nasce spontanea nello spettatore una riflessione sull’identità della nostra Europa, su cosa sia oggi la Memoria e anche che significato possa avere onorare la Giornata della Memoria – voluta nel 2000 dall’Unione europea come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo (nazismo) e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati – in un tempo che, purtroppo, sta perdendo tutti i testimoni diretti di quell’orrore.
Il film, presentato in prima mondiale al Festival di Cannes, il 21 gennaio ha aperto il Trieste film festival e dal 27 gennaio (Giornata della Memoria) sarà nelle sale di tutta Italia, distribuito da Teodora film.
giovanna barreca