Continua la meritoria operazione di I Wonder Pictures di distribuire nelle sale italiane documentari – già passati al Biografilm Festival di Bologna – che altrimenti sarebbero assolutamente invisibili nel resto del paese. Era accaduto recentemente con The Gatekeepers – I guardiani di Israele e ora la neonata società di distribuzione propone al pubblico italiano Pussy Riot: A Punk Prayer, documentario dedicato al gruppo punk russo diventato famoso per le sue posizioni anti-establishment. E, sostanzialmente, con A Punk Prayer sembra di avere una conferma su quel che si indovina che sia il taglio e l’ottica delle scelte di I Wonder Pictures: film dal necessario contenuto politico che risentono però di una scarsa attenzione alla forma, come se si trattasse di elementi da poter tenere sganciati e separati.
Questo documentario, diretto da Mike Lerner e Maxim Pozdorovkin, si tiene soprattutto grazie alla forza delle sequenze d’archivio, in particolare le esibizioni anarchiche, spiazzanti e provocatorie delle Pussy Riot, ora sul tetto di un carcere ora nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, evento quest’ultimo che ha provocato il vero scandalo e la condanna di tre di loro (perché in realtà sono di più e celano la loro identità sotto dei passamontagna colorati, ma le tre arrestate sono state ovviamente costrette a rivelare il loro nome). Al di là di questo materiale però – e al di là delle straordinarie sequenze del processo spettacolo cui sono state sottoposte – resta poco altro di scardinante da vedere. La forza di Pussy Riot: A Punk Prayer è tutta nell’energia di queste coraggiosissime giovani donne che lanciano grida e strimpellate violente contro Putin, la retrograda società russa, il maschilismo e l’ipocrisia. E che, in sede processuale, hanno il coraggio di mettere sotto accusa le istituzioni giudiziarie e, con loro, tutto il regime.
Dunque è giusto e anche commovente vedere questo film, con l’impressione però che si sarebbe potuto fare di più, magari provando a parlare con una di loro, per esempio con Yekaterina Samutsevich, attualmente libera, oppure provando a innervare anche sul piano della scrittura l’eversività del loro discorso.
Ciò non toglie che, appunto, il gesto politico e il senso di questo gruppo punk all’interno della società russa emerga con chiarezza all’interno del film e che anche le varie dinamiche familiari – sia pur lanciate con flashback maldestri – riescano a delinearsi in modo preciso. Le interviste ai genitori delle tre Pussy Riot permettono infatti di capire come e perché queste ragazze abbiano sentito la necessità di alzare la voce, di togliere il velo all’ipocrisia e mettere in luce le contraddizioni della società russa. È nelle parole dei genitori che cogliamo anche il profondo conflitto interiore che costoro vivono, un conflitto che dal particolare si fa generale e guarda a ogni meccanismo di rivolta: pur essendo potenzialmente e praticamente d’accordo con le proteste delle loro figlie, infatti i genitori delle ragazze rivelano che avrebbero preferito non fosse toccato a loro in prima persona di dover vivere il dramma e la necessità della protesta.
Certo, si avverte qua e là lo schematismo del discorso che insiste nel mettere alla berlina il regime russo, dando per scontato – come sorta di non-detto – che noi che vediamo il film viviamo in comode democrazie occidentali. Ovviamente, non si poteva chiedere a questo documentario di squadernare tutte le mille contraddizioni che attraversano i rapporti tra la Russia e l’Occidente (a partire dall’ospitalità data a Edward Snowden), eppure prossimamente sarebbe il caso di vedere anche qualcosa – che sia più interessante e meno ricostruito di Il quinto potere – che sveli i lati oscuri dell’Occidente.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi